A proposito dell’Afghanistan, area tribale.
“Salvo che al tempo del raccolto, quando l’autoconservazione porta a una temporanea tregua, le tribù Pashtun sono sempre impegnate in una guerra, privata o pubblica. Ogni casa grande è una vera fortezza feudale, fatta, è vero, solo di argilla seccata al sole, ma con terrapieni, torrette, feritoie, torri di appoggio, ponti levatoi, ecc. al completo. Ogni villaggio ha le sue difese. Ogni famiglia coltiva la sua vendetta; ogni clan, la sua faida. Ogni tribù e combinazione di tribù ha i suoi conti da regolare. Nulla è mai dimenticato e rari sono i debiti non pagati.
Chi conosca e osservi senza fallo il codice d’onore può passare senz’armi da un capo all’altro della frontiera. Il minimo errore tecnico gli sarebbe, però, fatale.
In questo mondo felice il diciannovesimo secolo ha portato due novità: il fucile a retrocarica e il Governo Britannico. Il primo è stato un enorme lusso, una benedizione; il secondo una disgrazia senza fine. Non c’è posto al mondo in cui i vantaggi del fucile a retrocarica, e, ancor più, di quello a ripetizione, siano stati apprezzati più che sulle montagne del nord dell’India. Un’arma che può ammazzare con precisione a 1.500 metri di distanza ha aperto nuovi panorami di delizie ad ogni famiglia che possa comprarsela. Uno può starsene a casa sua e sparare al vicino a un miglio di distanza…
Trovammo il generale e la sua batteria ammucchiati in un villaggio di fango. Se l’era vista brutta. Era ferito alla testa, ma non seriamente. Sorpreso dall’oscurità si era buttato con i suoi armati in alcune case e aveva improvvisato una specie di forte.
I Mamund erano arrivati al villaggio nello stesso momento, e per tutta la notte una lunga ed aspra battaglia aveva infuriato di casa in casa e nelle stradine di questo labirinto di fango. Gli assalitori conoscevano perfettamente ogni centimetro del terreno. Combattevano nelle loro cucine e nei loro soggiorni… I difensori si aggrappavano dove potevano, nel buio quasi totale, senza la minima conoscenza del terreno o dei fabbricati. I montanari irrompevano sfondando le pareti, o dai tetti, sparando e colpendo con i loro lunghi coltelli… Quattro su dieci ufficiali inglesi erano feriti. Un terzo dei genieri e dei cannonieri erano morti o feriti…
Sir Bindon ordinò di restare nella vallata dei Mamund e vendicarci mettendola a ferro e fuoco. E questo facemmo, ma con grandi precauzioni. Procedemmo sistematicamente, con la nostra spedizione punitiva, villaggio per villaggio, distruggendo le case, colmando i pozzi, facendo saltare le torri, tagliando i grandi alberi frondosi, bruciando le messi e distruggendo i serbatoi. Quando i villaggi erano in pianura era facile. Quando però dovevamo attaccare i villaggi sui fianchi delle montagne, loro resistevano fieramente e noi perdevamo per ogni villaggio due o tre ufficiali inglesi e quindici o venti soldati indigeni. Se ne valeva la pena, non sono in grado di dirlo. In ogni caso in un paio di settimane la valle era un deserto, e l’onore era soddisfatto”.
Il brano è tratto dall’autobiografia giovanile, My Early Life, di Winston Churchill, che oltre alla Guerra boera e alla Carica di Omdurman, contro la rivolta del Mahdi, racconta due -disastrose- spedizioni punitive contro i Pashtun, cui riuscì ad aggregarsi a poco più di venti anni, come giornalista ed ufficiale.
La data è più di un secolo fa. La novità in fatto di armi era il Mauser -una portata utile di più di 1.500 metri- con cui i boeri avevano decimato le ordinate schiere di soldati con la giubba rossa, senza farsi neppure vedere.
Mancavano allora i visori notturni, gli elicotteri, i missili, le cannoniere volanti. Ma anche oggi il fatto di combattere nelle proprie cucine e stanze è insieme una tragedia e un modesto vantaggio.

30 Ottobre 2006
Rapporto medico riguardo gli effetti dei raid simulati sullo stato di salute mentale della popolazione della striscia di Gaza.
“E’ importante sottolineare che questi raid hanno gravi conseguenze psicologiche in ampie porzioni della popolazione, ed in particolare nei bambini. Nel rapporto qui presente, basato su competenze scientifiche e su osservazioni cliniche, metteremo in luce questi effetti sulla psiche, che possiamo suddividere in quattro livelli.
Primo, il livello cognitivo, che include l’associazione nella mente dei bambini di rumori forti con una sensazione di pericolo; comporta deficit di concentrazione, con scarso rendimento scolastico, sensazione di costante preoccupazione, pensieri angoscianti, paura di perdere una persona cara, fantasie violente, incubi, pensieri depressivi, glorificazione della violenza, crescente sensazione di vulnerabilità e dello stato di allerta dovuta all’incapacità di distinguere tra raid aerei veri e propri e simulati.
Secondo, il livello emozionale, che include: ansia e panico, paura, nervosismo, pianto, rabbia e frustrazione, depressione, sensazione di impotenza rispetto ad un mondo percepito come pericoloso e privo di pace e sicurezza.
Terzo, il livello comportamentale: stato di allerta, attaccamento eccessivo ai genitori, pavor nocturnus (terrore notturno), nicturia (incontinenza notturna), ostilità alla frequenza scolastica, scarso appetito, psellismo (disartria sillabica), tic, comportamento regressivo, disturbi del sonno, paura di restare soli.
Il quarto livello è somatico: mal di testa, dolori muscolari, gastrite, iperventilazione, palpitazioni, brividi, tremore corporeo, sensazioni di soffocamento e spossatezza.
Il principale effetto negativo dei raid è l’impatto sulla vita familiare quotidiana, ovvero eccessiva apprensione da parte della famiglia sulla sicurezza del bambino (del resto, la maggior parte dei bombardamenti ha luogo nelle ore in cui i bambini vanno a scuola o vi fanno ritorno); comportamento iperprotettivo, stato di ansietà persistente dovuta alla paura di perdere un familiare, nervosismo, intolleranza, disturbi del sonno che conducono alla sensazione di sopraffazione, stress da routine quotidiana, sensazione di impotenza dovuta all’incapacità di prevedere l’eventualità di un bombardamento.
In aggiunta ai sintomi psico-sociali sopra esposti, fonti mediche del Ministero Palestinese della Salute hanno rilevato un incremento percentuale del 30-40% nel numero di aborti spontanei nel periodo tra il 27 ed il 29 ottobre 2005; anche i pazienti cardiopatici con pace-maker sono stati soggetti a disturbi, così come c’è un netto incremento di pazienti che lamentano problemi uditivi che potrebbero interessare il nervo acustico e condurre alla sordità”.
(Eyad El Sarraj, psichiatra, direttore del Gaza Community Mental Health Programme - www.gcmhp.net).

Numeri sull’energia
I combustibili fossili sono utilizzati per la produzione di energia in tre forme quantitativamente quasi equivalenti: termica (riscaldamento); termoelettrica (luce ed elettricità); meccanica (autotrasporto). In molti casi più che di energia si dovrebbe parlare di potenza impiegata (energia nel tempo). Nel Sistema Internazionale, l’energia si misura in joule, J, e la potenza (rapporto tra joule e secondi) in watt, W, o kW (mille watt). La potenza pro capite che le società umane impiegano varia nel mondo con disparità notevoli: 10 kW per ogni abitante sono richiesti negli USA, 4 nei Paesi dell’UE, 1,2 in Cina, 0,7 in India, da 0,1 a 0,5 nei paesi poveri. Il totale è di circa 10 miliardi di kW utilizzati in ogni istante a livello planetario; la media è di 1,6 kW per ogni essere umano. E’ possibile calcolare il proprio “fabbisogno” considerando, per esempio, che la potenza delle lampade delle nostre abitazioni varia da poche decine a un centinaio di watt; quella di un’automobile è di decine di kW; il metabolismo del nostro corpo, per nutrirci e mantenerci in vita, richiede costantemente solo 100 W.
L’efficienza per l’utilizzo di energia nel nostro Paese è un concetto astratto. Per il riscaldamento degli ambienti domestici, in Germania le case “passive” (settore trainante dell’edilizia tedesca) non superano i 15 kWh (chilowattora) all’anno per ogni m2 di superficie abitata (1 kWh = 3.600.000 joule). In Italia, con un clima molto più mite, si calcola (ma non si hanno dati precisi) che si raggiungano 150 - 200 kWh per m2 (costo di 1 kWh ~ 0.5 Euro). Per quanto riguarda la corrente elettrica, si spreca sotto forma di calore degradato quasi il doppio dell’energia resa disponibile. Il rendimento medio delle centrali termoelettriche è del 38% (cioè, il 62% dell’energia prodotta è dissipata nei processi di trasformazione e trasporto).
Nel settore dei trasporti, lo spostamento di una persona per un km richiede energia pari a circa 4000 kJ in auto, 2450 in aereo, 2400 in autobus, 2300 in treno, 300 a piedi e 90 in bicicletta. Considerando le autovetture, dopo il dimezzamento dei consumi negli anni Settanta, il miglioramento nella resa energetica è stato nella media lieve ma costante. Le case automobilistiche hanno oggi prototipi che raggiungono 100-120 km con un litro di benzina; tuttavia, l’introduzione sul mercato dei Suv ha invertito una tendenza alla riduzione dei consumi che durava da più di trent’anni. Se valutiamo il rendimento energetico medio, considerando un consumo di energia pari a un litro di benzina, un Suv viaggia per 5,5 km, un’auto per 12 km, un ciclista percorre 13 km se si alimenta con carne, ma può arrivare a 126 km se si alimenta con pane (nel calcolo sono inclusi i consumi per la produzione e il trasporto di carne o pane).
(Enzo Ferrara)

7 novembre 2006
Henk Kamp, il ministro della difesa olandese, ha scatenato grandi polemiche quando il 3 novembre ha deciso di decorare (e così riabilitare) gli 850 soldati di stanza in Bosnia Erzegovina nel 1995. Tra questi i 350 caschi blu presenti a Srebrenica con l’incarico di proteggere l’enclave musulmana, quando in sei giorni circa 8000 uomini, compresi vecchi e giovani, furono assassinati e 30.000 persone deportate.
L’Onu, che aveva optato per un intervento “umanitario”, ha poi riconosciuto il proprio fallimento. Nell’edizione del 2 novembre la rivista Paris-Match ha riportato il testo di un’intervista al negoziatore americano Richard Holbrooke (fatta alla tv bosniaca lo scorso anno) in cui racconta di come all’epoca avesse ricevuto dalla Casa Bianca l’“istruzione” di “sacrificare Srebrenica”. Alla domanda se si riferisse al territorio o alla popolazione avrebbe risposto: “Entrambi”.
Intervistato dal quotidiano Trouw, Hasan Nuhanovic, allora interprete per l’Onu a Srebrenica, ha commentato: “Non ho visto all’opera alcun militare meritevole di una medaglia”.
(Le monde)

15 novembre 2006
Dopo mesi di discussioni il parlamento pachistano ha modificato la legge sullo stupro.
L’ordinamento vigente risale al 1979 e sancisce che la donna deve portare quattro testimoni maschi per provare l’avvenuto abuso. Se non ci riesce rischia di essere accusata di adulterio.
La nuova legge sottrae lo stupro dalla giurisdizione della legge islamica e lo rende un crimine punibile secondo il codice penale.
Aboliti anche i quattro testimoni, la legge si affiderà a prove legali e indiziarie. I membri dell’opposizione facenti parte dei gruppi islamisti radicali hanno boicottato il voto abbandonando il parlamento.
(International Herald Tribune)

17 novembre 2006
“Un filo spinato arrugginito divide il vecchio Zimbabwe dal nuovo. Da una parte c’è Effie Malamba: nata nel 1901, è stata sepolta sotto una lapide di granito 90 anni dopo. Dall’altra Sylvia Ncube: nata nel 1974, deceduta dopo soli 32 anni. Il filo separa il vecchio cimitero del Parco di Bulawayo dal nuovo padiglione aperto a febbraio”. I cumuli di pietre e fango presenti in quest’ultimo raccontano la storia della disintegrazione dello Zimbabwe, che oggi vanta la più bassa aspettativa di vita per le donne in tutto il mondo: 34 anni (era 65 solo dieci anni fa).
Una pandemia di Aids, la crisi alimentare ed economica stanno uccidendo 3500 persone a settimana, un tasso superiore a quello dei morti in Iraq, Darfur o Libano. Anche in Afghanistan l’aspettativa di vita delle donne è superiore, 40 anni.
Ventisei anni di Robert Mugabe, in potere dal 1980, sono stati catastrofici.
A Hyde Park, gli uomini che scavano le fosse sono stanchi. Devono posare fino a venticinque bare al giorno.
Shenghi, 26 anni, come quasi tutti, fa parte di un’associazione che mette insieme le persone per venire incontro ai costi della sepoltura di figli, sorelle e fratelli, in vergognoso aumento.
L’85% della popolazione vive in povertà, l’80% è disoccupato, l’inflazione è al 2000%. Ma in tutto questo sono le donne a soffrire di più.
Il sistema sanitario è al collasso, anche l’educazione sta prendendo la stessa strada e le ragazzine sono le prime a scontarlo. Episodi di violenza domestica e abusi sono numerosi.
Amen, 33 anni, sta aspettando di morire in un hospice di Bulawayo, il corpo piagato. I suoi tre bambini stanno con la sorella che vive a solo un’ora di strada, ma dalla data del ricovero, quattro mesi fa, non li ha più visti. Nessuno ha i soldi per il viaggio.
Anna, 25 anni, vive con i figli di 8, 6 anni e 18 mesi. La “casa” è una baracca di una stanza senz’acqua e elettricità. Come la madre, anche i figli hanno delle piaghe. Ma non ci sono soldi per consultare un medico per farsi dire ciò che Anna già sa: hanno tutti l’Aids.
In Zimbabwe anche morire costa e molti non possono permettersi nemmeno una bara.
In questo clima di paura e disperazione, è un gruppo di donne (Woza, Women of Zimbabwe Arise) a sfidare il regime con manifestazioni e proteste pubbliche. Nato tre anni fa, la fondatrice, un’imprenditrice, è stata arrestata innumerevoli volte.
Ciononostante oggi il movimento conta 30.000 membri, che lottano per veder riconosciuti i diritti elementari: cibo, istruzione, assistenza sanitaria. L’approccio rigorosamente nonviolento sta mettendo in crisi le autorità: “difficile per un poliziotto intimidirci, quando sua madre, sua sorella o la sua fidanzata è una di noi. E’ imbarazzante”.
(Independent)

1 dicembre 2006, giornata mondiale dell’Aids
Ernestina Mrta, 16 anni, è l’unica proprietaria di un bungalow con un giardino. Per quanto l’abitazione abbia visto giorni migliori e il terreno sia oggi incolto, sta meglio di molti suoi vicini. La casa è arredata e di tutto fornita. La sua barbie è ancora nella scatola e anche il set di acquarelli sembra essere stato poco usato. Sui muri, diversi pannelli con foto in bianco e nero, un Nelson Mandela sorridente e poi i ritratti dei genitori, una foto della casa appena finita…
In quei muri c’è la storia della tragedia di Ernestina.
Nel 1990 quando finì la guerra e fu possibile andare a lavorare nelle miniere in Sudafrica tutti gli uomini ne approfittarono, compreso il padre di Ernestina. Di lì l’ammirazione per Mandela, ma anche l’origine del disastro, perché in questa città, Chokwe, vicino al confine col Sudafrica, l’Aids è più diffusa che in qualsiasi altro luogo, per la semplice ragione che gli emigrati l’hanno portato qui.
Il padre di Ernestina è stato il primo a morire, nel 2000, poi uno zio, poi un altro. Poi è morta sua zia, poi la madre, poi due suoi fratelli, poi una delle sorelle.
A Ernestina era rimasta una sorella, morta qualche settimana fa investita da un’auto.
Ora Ernestina è sola e i suoi beni, anziché preservarla, la rendono più vulnerabile agli abusi e sfruttamenti che marchiano la vita dei 380.000 orfani del Mozambico.
Ma la cosa più drammatica è che a nessuno dei membri della famiglia di Ernestina è stato diagnosticato l’Hiv, né sono stati curati. Lo stigma è ancora terribile e la gente preferisce non saperlo.
Il Mozambico è passato per il noto ciclo: colonialismo, lotta per l’Indipendenza (ottenuta nel 1975); collettivizzazione (che nel 1983 portò alla bancarotta); guerra civile (conclusa nel 1992). Oggi è al nono posto tra i paesi più poveri, con un’aspettativa di vita di 37 anni e il 50% del budget che dipende da aiuti esterni.
Tuttavia l’immagine è quella di un paese efficiente e che guarda al futuro. La gente appare indaffarata e comunque positiva, le infrastrutture sono buone e la crescita economica è del 7% l’anno. Nessuno guarda indietro.
Magari è una cosa buona, ma può anche essere che l’orrore e la rabbia siano semplicemente repressi, in attesa di esplodere.
Oggi il problema più grave è che nessuno parla di Aids, per quanto questo rappresenti una grave minaccia allo stesso destino della nazione. Per chi ha contratto il virus, o lo sospetta, questa cospirazione del silenzio è un ulteriore peso.
Chi è abbastanza coraggioso da guardare in faccia la realtà e chiedere aiuto va incontro alla disapprovazione sociale.
Al Xai-Xai Health Centre le donne in attesa hanno abiti colorati, ma l’impressione resta squallida, desolata. Lo sguardo abbassato, gli occhi fissi, attendono silenziosamente. Sono tristi, sconfitte, impotenti, traumatizzate. Ovviamente, oltre all’Hiv, sono tutte anche affette da depressione.
Jacinta Munguamba, 43 anni, lavora come psicologa, ha trascorso quasi l’intera carriera occupandosi di malati di Aids. Il lavoro è duro, ma queste donne, relativamente parlando, sono molto fortunate: rappresentano l’avanguardia di quello che in molti sperano sarà un salto per l’intera Africa rispetto alla cura dell’Aids.
In Mozambico, solo il 5% delle 146.000 donne incinte positive all’Hiv vengono trattate affinché il virus non si trasmetta al bambino, ma è comunque un risultato importante rispetto a solo un paio d’anni fa. Sono le prime donne africane ad avere questa chance. Chiaramente Joana Adrrano, 24 anni, fa fatica a vederla così. Lei sa di essere positiva e di stare bene, ma il suo bambino, sei mesi, non ha ancora fatto il test.
Nella capitale, Maputo, è disponibile un test da effettuarsi alla nascita, ma a Xai-Xai, quella tecnologia, per quanto semplice, non è ancora arrivata; c’è solo il controllo sugli anticorpi che però viene fatto a 18 mesi. Ad ogni modo, dato che sia lei che il piccolo hanno ricevuto il Nevirapine, un antiretrovirale, e che lei sta seguendo le indicazioni del centro (allattamento al seno non oltre i sei mesi) le possibilità che Feliz contragga il virus sono molto limitate. Senza alcun intervento sarebbero state di un terzo.
In Occidente la trasmissione madre-figlio è stata pressoché debellata grazie al parto cesareo, per cui anche lo studio sui farmaci ad hoc per bambini è stato interrotto e i dosaggi per gli adulti rischiano di essere troppo tossici per i bambini di peso inferiore ai 12 chili. In un paese in cui il 70% della popolazione vive nelle campagne, la maggioranza delle donne è analfabeta, l’accesso alle cure limitato per l’assenza di infrastrutture, è difficile pretendere quell’accuratezza nel dosaggio dei farmaci. Tuttavia errori anche minimi hanno conseguenze pesanti. Gli ospedali poi devono occuparsi di casi di malaria, malattie respiratorie e di tutte quelle infezioni legate all’insufficienza immunitaria. Nei reparti che fronteggiano la malnutrizione, il 50% dei bambini ricoverati ha l’Hiv. Marta Mongane si è presentata con la nipotina Jennifer. La figlia è morta di Aids un paio di anni fa e Marta, benché anziana e priva di mezzi, ha dovuto occuparsi della nipote. Difficile provvedere, specie con il viso sfigurato da un herpes (correlato all’Aids) che la marchia quale malata rendendola una paria.
I bambini con l’Hiv hanno il 50% di possibilità di superare l’anno di vita, anche perché il cancro colpisce i bambini con l’Hiv venti volte di più rispetto agli altri. Per questo la prevenzione sulla trasmissione del virus al neonato è così importante.
Ciò che colpisce di questo paese è anche lo spirito d’intraprendenza di molti “militanti”.
Amos Sibonbo, 32 anni, ha iniziato la sua vita di attivista a 14 anni con i Continuadores, il movimento giovanile del Frelimo (il Fronte di Liberazione). Quando nel 1997 il governo decise di lavorare sulla presa di coscienza della società, Amos fu uno dei giovani selezionati per essere formati. La sua personale presa di coscienza avvenne con alcuni amici quando si sottoposero al test: risultarono tutti positivi. Decisero così di formare un gruppo di auto-aiuto chiamato Kindlimuka. Ad oggi Amos ha promosso la formazione di altri 27 gruppi come il suo, in giro per il paese.
E’ uno dei pochi a parlare spregiudicatamente dei molti aspetti del problema, come la resistenza degli africani ad usare il preservativo. Ma è anche molto lucido rispetto alle dinamiche psichiche, come la negazione, che lui associa al messaggio circolato negli anni 90, quando avere l’Aids voleva dire morire.
Anche la giovane Ernestina ha attorno molte persone che si occupano di lei. Adele segue quotidianamente lei e altri 19 orfani del luogo, controllando che abbiano da mangiare e che si sentano accuditi, e se hanno bisogno di parlare li ascolta.
Quando non può gestire le difficoltà che sorgono, si rivolge ad Amelia, un’altra volontaria, che tiene in collegamento le “ouvintes”, coloro che ascoltano, con il locale ente di beneficienza, Vukoxa. Le due donne lavorano volontariamente, anche se Amelia ha avuto in dono una bicicletta per gli spostamenti. Vukoxa era nata per occuparsi degli anziani, ma man mano che gli orfani finivano sotto il tetto dei loro nonni, ha dovuto iniziare a occuparsi soprattutto dei bambini e dello stigma che colpisce queste famiglie.
Sono Adele e Amelia che incoraggiano Ernestina a fare, tutti i giorni, sette chilometri per andare a scuola, a dotarla della cancelleria e di ciò di cui ha bisogno, soprattutto a esortarla a non vendere le sue proprietà e la sua casa, perché “sono il suo futuro”.

Amianto
Estratto dall’intervento di Raffaele Guariniello alla presentazione del documentario di Silvie Deleule, “La morte lente de l’amiante”, festival CinemAmbiente (Torino, 28 ottobre 2006)
Gli esperti affermano che conteremo i morti causati dell’amianto almeno fino al 2040. Penso che la storia dell’amianto sia anche la storia dell’imprevidenza dell’uomo e, insieme, una storia di umiliazione dell’uomo da parte dell’uomo. Il 14 giugno 2006 l’organizzazione internazionale del lavoro ha reso noto che ogni anno, in tutto il mondo, muoiono 100.000 lavoratori per malattie dovute all’amianto. Una cifra che più di ogni parola può far comprendere in tutta la sua dimensione la tragedia che si sta consumando ancora oggi, per la mancata prevenzione di ieri. Una cifra che ci fa anche capire quanto sarebbe pressante l’esigenza di un effettivo -non solo a parole- impegno delle istituzioni per la tutela della salute in generale, negli ambienti di lavoro e di vita, con l’obiettivo di scongiurare nuove tragedie in futuro. Quell’obiettivo che in passato -dobbiamo riconoscerlo- l’Enpi (Ente Nazionale Prevenzione Infortuni) e l’ispettorato del lavoro non hanno saputo conseguire. Un obiettivo che, si spera, gli Spresal (Servizio Prevenzione Sicurezza Ambienti di Lavoro) sappiano ora perseguire, anche se c’è un problema di organici e di professionalità: gli ispettori potrebbero fare molto di più se fossero preparati, invece sovente sono mandati allo sbaraglio ad affrontare qualsiasi tipo e genere di problemi.
In tema di amianto nascono prospettive giuridiche molto interessanti. Per esempio, in Francia, il 3 marzo del 2004, il Consiglio di Stato ha dichiarato la responsabilità non delle imprese ma dello Stato, e ha condannato lo Stato a indennizzare numerose persone per una colpa consistente nel non aver fatto abbastanza contro i rischi dell’esposizione all’amianto. Si potrebbe ipotizzare lo sviluppo di un’azione di questo tipo anche nel nostro Paese, ricordando le carenze dell’Enpi che coi suoi ispettori andava in tutte le industrie dell’amianto, visitava i lavoratori e diceva: “Idoneo: purché non esposto a polveri”. Ogni anno ripeteva questa formula; questa era l’azione preventiva.
Addirittura, in Gran Bretagna, il 15 febbraio 2005, l’Alta corte di giustizia è arrivata a riconoscere il diritto al risarcimento dei danni causati dallo stato ansioso sofferto da alcuni lavoratori in conseguenza della preoccupazione che l’esposizione ad amianto potesse comportare malattie gravi, come il tumore polmonare o il mesotelioma pleurico. Purtroppo tutto ciò non basta. Non basta condannare le imprese o lo Stato per i danni cagionati.
Il nostro Paese nel 1992 si è posto all’avanguardia nella lotta all’amianto con una legge che ne ha bandito la produzione, il commercio e l’uso. Nei decenni passati, però, abbiamo messo amianto dappertutto, nei tetti, nelle pareti, nei soffitti degli edifici in cui ci tocca abitare, lavorare, andare a scuola, farci curare. L’amianto uccide ogni anno in Italia più di tremila persone: quasi 1000 per tumore della pleura, 540 per tumore del peritoneo, 1500 per tumore del polmone. Con il trascorrere del tempo, i materiali in amianto si sfaldano, cedono fibre e mettono in pericolo la nostra vita. E’ un pericolo che vede coinvolti tutti, non solo i lavoratori, visto che -dicono gli esperti- bastano poche fibre di amianto, qualcuno dice anche solo una fibra, per correre il rischio di ammalarsi di tumore della pleura o del peritoneo.
Le leggi ci sono; l’ho sentito dire poco fa e mi è piaciuto sentirlo, perché molto spesso si attribuisce la colpa alle leggi. Le leggi forniscono strumenti preziosi a tutela dell’integrità psicofisica dei lavoratori. Recentemente è stata promulgata una nuova normativa in materia di rischi lavorativi da amianto. Peccato che ancora non si faccia ovunque il possibile per togliere o per rendere inoffensivo l’amianto presente negli edifici. Le leggi ci sono; possono essere migliorate, possiamo anche metterle tutte insieme e farne un bel testo unico -con la speranza che il testo unico non diventi però l’occasione per tornare indietro, come è stato tentato negli anni appena trascorsi. Ma la vera domanda che dovremmo porci oggi è: “Quanti soldi siamo davvero disposti a spendere per proteggere le vite umane?”.

2 dicembre 2006
Su Second Life, un vero e proprio mondo virtuale tridimensionale creato nel 2003 (vedi Una Città, n.137), gli abitanti hanno ormai raggiunto quota un milione e 900.000, e a settembre le transazioni tra utenti avevano superato i 7 milioni di dollari “veri”.
Ora, l’agenzia di stampa inglese Reuters ha aperto una propria sede con tanto di corrispondente vero, che si occuperà di informare i cybercittadini di ciò che accade nel mondo esterno e quest’ultimo di quanto avviene su Second Life.
A fine ottobre l’Economist ha raccontato come anche l’Ibm sia sbarcato in forze su Second Life: più di 230 dipendenti e mezza dozzina di isole. Finora ha allestito una simulazione di un torneo di Wimbledon, ha anche organizzato alcuni incontri virtuali, come una rimpatriata di vecchi compagni di scuola.
Per le grandi imprese Second Life offre un nuovo luogo di comunicazione, formazione, test di nuovi prodotti, possibilità di entrare in contatto con nuovi target (metà dei frequentatori è americano, l’età media è di 32 anni).
Sulla Stampa di qualche mese fa è comparso un servizio su Amster-Dame, il quartiere a luci rosse di Second Life, accessibile solo agli utenti maggiorenni, dove una prestazione dura dai trenta ai quaranta minuti e costa almeno 500 Linden Dollar, la valuta corrente in Second Life (convertibili in dollari reali; un dollaro americano equivale a circa 270 Linden Dollars).
Il settore conta addirittura un indotto. Il sito, bando a qualsiasi falso pudore, ha infatti pensato di offrire un servizio di recensioni online delle escort virtuali, con tanto di foto e tariffe.
Second Life è un mondo digitale, ma le opportunità di fare business sono assolutamente reali. L’agenzia immobiliare virtuale di Ansie Chung, (avatar della signora Ailin Graef) si è guadagnata la copertina di Business Week. Ansie Chung/Ailin Graef è ufficialmente il primo imprenditore ad essere diventato milionario con un business nato in Second Life. Sembra che il totale di isole acquistate da Anshe e il suo staff si attesti intorno alle 550 unità. Considerando come prezzo medio per un’isola $1675 sarebbero circa $921.250, quasi un milione.
Anche le università di Harvard e Yale sono già presenti in Second Life. Inizialmente l’accesso ai loro corsi era riservato ai propri studenti ma qualcosa sta cambiando. Un professore di Harvard ha tenuto il suo primo corso pubblico in Second Life dal titolo “CyberOne: Law in the Court of Public Opinion”.
Ora anche i politici si stanno interessando al fenomeno e qualcuno sta già pensando a una campagna elettorale. Negli Stati Uniti qualcuno sta addirittura valutando la possibilità di tassare i proventi di Second Life.
Infine, in questi giorni, è stato proclamato il primo sciopero: una serrata di negozianti, con tanto di cartelli di pixel, che protestano contro un nuovo programma, CopyBot, che permette di clonare gli oggetti. Agli abitanti di Second Life è infatti riconosciuto il diritto di rivendicare il copyright sulle proprie creazioni. CopyBot era nato come tool per consentire il backup, prima di essere modificato da un utente ed essere rivenduto come macchina per clonare.
La prossima sfida pare essere quella del software libero, gli ingegneri del Linden Lab, il Laboratorio dove tutto è cominciato stanno appunto pensando a una Second Life open-source.

5 dicembre 2006
L’appello di Natale quest’anno è dedicato ai palestinesi.
Per gli abitanti di Gaza il 2006 rischia di essere il peggiore anno che ricordino. Certo il milione e trecentomila abitanti di questa striscia di terra non avevano mai sperimentato questo vacillare dalla speranza alla disperazione in poco più di 12 mesi. Con il ritiro di coloni e soldati nell’agosto del 2005 molti palestinesi, quasi loro malgrado, avevano ricominciato a sperare.
Finalmente l’odiato checkpoint Abu Houli non impediva più i viaggi tra nord e sud e i bambini di Khan Younis potevano passare per ciò che rimaneva del vecchio insediamento ebraico Neve Dekalim e tuffarsi su quel Mediterraneo che fino ad allora avevano solo sognato.
Dopo 5 anni di buio, gli abitanti di Gaza potevano di nuovo respirare, forse anche economicamente.
Da quando Hamas e altri miliziani hanno rapito il caporale Gilad Shalit e ucciso due suoi compagni, alla fine di giugno, bombardamenti, droni, e fuoco di mitragliatrici da parte delle forze militari hanno ucciso 400 palestinesi, civili, donne e bambini inclusi.
Per cinque lunghi mesi l’elettricità è stata tagliata fino a otto ore al giorno, compromettendo anche la fornitura d’acqua.
Per non parlare dell’uso di “sonic bombs”, il frastuono prodotto dagli aerei a reazione che rompono la barriera del suono a bassa quota, spesso sincronizzati sull’orario di scuola dei bambini.
Come non bastasse, molti palestinesi, anche bambini, sono morti negli scontri tra Fatah e Hamas, o tra clan.
Per i sopravvissuti della famiglia Athamneh, che ha perso 17 membri in seguito a un attacco israeliano, il lutto, a distanza di tre settimane, ora che sono rimasti soli, sembra addirittura più pesante.
A Gaza, Adeeb Zarhouk, 44 anni, gran lavoratore, per vent’anni si è alzato alle 4 del mattino per aiutare la moglie Majda e i loro sette figli. Allora lavorava in Israele, poi cinque anni nell’area industriale di Erez, nel nord di Gaza, ora chiusa; oggi si alza nella speranza che qualcuno lo chiami per fare qualsiasi lavoretto, ma il telefono non suona da settimane.
Ogni mese la sua famiglia (oggi parte di quel 64% di palestinesi che vivono in condizioni di “estrema povertà”) riceve dall’Unrwa 240 dollari, ma l’affitto è di 540 dollari.
Il signor Zarhouk, che alle ultime elezioni ha votato Fatah, talvolta, sarcasticamente, impreca contro la democrazia: “Il mondo intero voleva che avessimo la democrazia, e non faceva che dire quanto le nostre elezioni fossero state regolari. Il problema è che non ne hanno poi apprezzato i risultati”.
Il boicottaggio seguito alle elezioni non ha solo sospeso gli stipendi degli impiegati dell’Autorità Palestinese (su cui si fonda l’economia di Gaza), ha messo a repentaglio anche il servizio sanitario, spesso anche altamente qualificato, ma assolutamente privo di adeguate strutture.
A un anno dall’accordo, negoziato da Condoleezza Rice, per la riapertura di Gaza, uno degli ultimi rapporti Onu rilevava come l’accesso al mondo esterno fosse ancora “estremamente limitato” e gli scambi commerciali “insignificanti”. Diplomatese per dire che Gaza è di nuovo una prigione.
(The Independent)

9 dicembre 2006
Riceviamo da “Ristretti”, notiziario quotidiano dal carcere.
Il progetto “Codiceasbarre” nell’ottobre scorso, a Milano, ha presentato “Treasure your memories”, la collezione d’abbigliamento 2007, e sabato 9 dicembre uno dei capi più famosi della collezione, il “pigiama special edition”, sarà esposto in anteprima in alcuni negozi delle città di Napoli, Verona, Varese, Alba e Brescia, e vi rimarrà per tutto il periodo natalizio. Il pigiama è da sempre il capo icona di “Codiceasbarre”. Quest’anno esce in una nuova versione uomo e, per la prima volta, donna. Il tessuto è il rigato tipico delle divise carcerarie italiane a cui si ispira liberamente. Il packaging: una federa da cuscino. Perché in carcere tutto viene utilizzato e riutilizzato con nuove destinazioni d’uso. E le federe vengono usate come sacco per la biancheria sporca, come strofinacci o come cartelline porta documenti.
Per l’anteprima, i negozi di abbigliamento delle 5 città allestiranno angoli o vetrine utilizzando materiali originali provenienti dalle carceri italiane.

10 dicembre 2006
Dall’inizio dell’invasione americana circa due milioni di iracheni hanno lasciato il proprio paese. Con un tasso di uscita di 3000 persone al giorno, questi profughi stanno minando il tessuto socio-economico di Giordania e Siria. In Giordania, 6 milioni di abitanti, di cui un milione e mezzo di palestinesi regolarmente registrati, sono già centinaia di migliaia.
L’Alto Commissariato per i rifugiati ha recentemente stimato che dal marzo 2003 più di 1,6 milioni, circa il 7% della popolazione, hanno lasciato il paese. Secondo le autorità libanesi più di 750 mila si sono già stanziati ad Amman (2,5 milioni di abitanti) e dintorni. A Damasco, che conta 3 milioni di abitanti, sarebbero quasi un milione, altri 150.000 sarebbero al Cairo. Una crisi umanitaria di proporzioni inaudite, specie per la velocità con cui avviene l’esodo.
La maggior parte degli emigrati porta con sé storie di orrore e tristezza. Ali Ghani ha una storia purtroppo comune: suo padre è stato portato via dalla loro casa, verosimilmente perché sciita; il suo corpo è stato poi ritrovato in strada.
In Giordania, la prima ondata di esuli risale alla guerra del Golfo del 1991, erano medici, intellettuali, insegnanti. Dopo l’invasione sono arrivati molti membri del governo precedente, e poi imprenditori e affaristi che hanno cominciato a investire nel mercato immobiliare e in varie attività. Questo ha comportato un aumento dei prezzi, ma ha anche rappresentato un aiuto all’economia locale. Il problema è iniziato con l’arrivo della popolazione più povera e si è esacerbato dopo gli attentati del 2005 contro tre alberghi di Amman.
Human Rights Watch ha chiesto alle autorità libanesi di fornire una protezione temporanea agli iracheni e di regolarizzare il loro status. Ma il malcontento sta crescendo, specie per via dell’aumento dei prezzi di case e affitti. Ad Amman, il prezzo di un tricamere è passato da 50.000 a 100.000 dollari, e un affitto medio da 400 a 1200 dollari, troppo per gli stipendi locali che vanno da 500 a 750 dollari.
Khaled Saeed, proprietario di un negozio di dvd, ha risparmiato una vita per comprare casa, aveva messo gli occhi su un appartamento che all’epoca veniva venduto a 35.000 dollari. “Poi sono arrivati gli iracheni”, racconta, e il prezzo è salito a 65.000. Così, anche lui ha cambiato opinione su di loro e ora vorrebbe solo che se ne andassero per tornare a una vita normale.
(New York Times)

Il peggiore della storia
Certo, non è piacevole avere ancora 25 mesi da passare alla Casa Bianca e già essere oggetto di un dibattito: “E’ il peggiore di sempre? O c’è stato qualcuno perfino peggiore di lui?”. Come fare il medico internista e sentirsi paragonare a Jack lo Squartatore mentre si è ancora lontani dalla pensione. Stiamo parlando di George Walker Bush, meglio noto come “Dubya”, naturalmente. Varie riviste americane, oltre a migliaia di blog, riempiono le loro colonne con interventi su questo tema: dal 1789 in poi è mai esistito un Presidente degli Stati Uniti più catastrofico di George Bush?
I difensori dell’attuale inquilino della Casa Bianca hanno alcune carte da giocare: ci furono presidenti così insignificanti che neppure gli alunni delle elementari ne ricordano il nome dopo aver completato il corso di educazione civica: chi era Millard Filmore (1850-1853), per esempio? Il suo titolo più importante per essere ricordato nei libri di storia sembra essere stato l’invio del commodoro Perry in Giappone, minacciando di cannoneggiare il palazzo imperiale di Tokyo se il Paese non si apriva ai commerci con l’America.
E il suo successore Franklin Pierce? Presidente dal 1853 al 1857, contrattò con il Messico l’acquisizione dell’Arizona, che però divenne uno Stato a pieno titolo solo nel 1912, quindi come risultato storico non sembra gran che. Un buon candidato sarebbe Warren Harding, che non prese alcuna iniziativa per prevenire il disastro economico seguito al crack di Wall Street nell’ottobre 1929, lasciando in eredità la Grande Depressione al suo successore Franklin Roosevelt, che purtroppo entrò in carica solo nell’aprile del 1933, dopo quasi quattro anni di sofferenze per gli americani.
I capi d’accusa contro George W. Bush sono sostanzialmente tre: la guerra in Iraq, il disprezzo per la legge dimostrato con le elezioni rubate nel 2000, il disastroso bilancio federale.
Se le ragioni per mettere Dubya in fondo alla classifica dei 43 presidenti americani sono queste, devo dire che mi sento di difenderlo. Cominciamo dalla guerra: sarebbe difficile trovare un solo presidente degli Stati Uniti che non sia stato coinvolto in conflitti con altri paesi, o non si sia reso responsabile di stermini di massa, fra quelli applauditi dagli storici come i migliori. Che dire di Andrew Jackson e della sua politica verso gli indiani? Siamo sicuri che le menzogne di Woodrow Wilson per far entrare il suo paese nella prima guerra mondiale fossero giustificate? Harry Truman è stato assolto per Hiroshima e Nagasaki? Lyndon Johnson e Richard Nixon non portano responsabilità per il Vietnam? In fondo quest’ultima guerra è costata 58.000 morti fra i giovani americani, l’Iraq (per ora) solo 3.000.
Elezioni: nel 1876 il democratico Samuel Tilden ottenne trecentomila voti più del candidato repubblicano Rutheford Hayes, che ottenne la vittoria solo grazie alle deliberazioni poco chiare di una commissione incaricata di controllare i voti degli stati del Sud ancora sotto occupazione militare. Nel 1960, l’arrivo alla Casa Bianca di John Kennedy fu probabilmente facilitato dalle manipolazioni del suffragio compiute dall’organizzazione democratica del sindaco Daley a Chicago: Kennedy ottenne i decisivi voti dell’Illinois solo grazie a 8.858 suffragi in più su un totale di 4.8 milioni.
Il disastroso deficit di bilancio: Bush non ha avuto mai alcun rispetto per le cifre e il budget in avanzo che aveva ereditato da Clinton si è trasformato in un buco colossale che pagheranno le generazioni future. Va detto che Franklin Roosevelt era un maestro dei bilanci in rosso, Lyndon Johnson il suo allievo migliore e Ronald Reagan semplicemente non si rendeva conto di ciò che stava dicendo quando parlava di “pareggio”.
Per questi tre capi d’imputazione, Bush merita probabilmente l’assoluzione per insufficienza di prove. Se ci sono ragioni per collocarlo non solo in fondo alla graduatoria, ma addirittura fuori classifica, stanno altrove: mai come durante la sua presidenza il ricorso alla menzogna è stato sistematico, deliberato, giornaliero. Il dibattito politico si è trasformato in una rissa da talk show, mentre le spudorate bugie su qualsiasi tema -dall’invasione dell’Iraq agli effetti delle riduzioni fiscali per i milionari- venivano avvolte in una retorica bellicista e in una ostentazione di fede religiosa che qualsiasi credente avrebbe dovuto trovare blasfema. La degradazione del sistema politico americano causata delle tattiche di Karl Rove per vincere le elezioni nel 2000 e nel 2004 rimarrà come l’eredità più pesante sulla memoria di George H. Bush, the worst President ever.
(Fabrizio Tonello)