1 dicembre 2007
A Fini che pagando dazio per andare al governo andò in pellegrinaggio allo Yad Vashem, ricordiamo che anche gli zingari furono sterminati ad Auschwitz.

2 dicembre 2007
Il quotidiano algerino Libertè ha recentemente pubblicato un reportage di Nadia Mellal sulle “bambine velate”, un fenomeno che si sta diffondendo in molti villaggi algerini dove già a sei anni si vedono ragazzine “velate dalla testa ai piedi”. La cosa sta assumendo proporzioni tali per cui davanti ad alcune scuole elementari è difficile scorgere una sola bambina non velata.
Molte mamme sono tanto disperate quanto incredule e non riescono a spiegarsi come sia possibile che da un giorno all’altro le loro bambine rientrino a casa con il velo.
Una mamma che da tempo ha abbandonato il velo ha raccontato di aver chiesto alla figlia perché improvvisamente avesse deciso di velarsi e si è sentita rispondere: “E’ Dio che ce lo ha chiesto”. Al suo tentativo di farla ragionare, la bambina ha rincarato la dose accusandola di essere una donna empia e destinata alle pene dell’inferno. La bambina ha sei anni.
“Dopo tre settimane dal rientro a scuola, mia figlia è tornata con un foulard in testa” racconta un’altra mamma. “E’ Dio che nel Corano ci chiede di coprirci e di non mostrare nulla del nostro corpo” le avrebbe spiegato la bambina e quando la madre ha cercato di spiegarle che il discorso è più complesso e certo non riguarda le bambine bensì gli adulti, si è vista ripetere il medesimo ritornello: “Che Dio ti riconduca sulla retta via! enti kafra! (sei una donna empia), è la religione che ci chiede di velarci. Le persone sono contente di me così, dicono che il velo mi sta molto bene”.
La mamma, sgomenta, pare le abbia provate tutte per far tornare la figlia sui suoi passi: “L’ho inviata in una colonia di vacanze per metterla in contatto con ragazzi della sua età e permetterle di vivere la sua infanzia. Volete sapere cosa mi ha chiesto? Mi ha chiesto di comprarle della magliette molto lunghe per coprirsi. Le ho detto che nessuno l’avrebbe riconosciuta sulla spiaggia. Mi ha risposto che comunque Dio l’avrebbe vista”.
“Il colmo è stato quando mia figlia ha iniziato a fare il ramadan tutti i lunedì e tutti i giovedì” continua a raccontare una delle tanti madri disorientate. “Quando le ho chiesto il perché, mi ha detto che è un hassan (un fioretto). Quando le ho spiegato che il Ramadan è solo per gli adulti non ne ha voluto sapere…”. Durante l’estate la bambina ha rischiato di morire.
Tutti sembrano concordi nel ritenere che il comportamento di queste ragazzine sia frutto dei condizionamenti dell’ambiente esterno più che da quello familiare, tanto più che appunto spesso le madri hanno dismesso il velo.
Nadia Mellal racconta anche l’episodio, avvenuto nel piccolo comune di Bordj El-Kiffan, in cui una bambina di otto anni non si è limitata a tornare a casa da scuola completamente coperta, lasciando la madre scioccata e senza parole, ma le ha anche chiesto: “Mamma, perché tu non porti il velo?”.
E a nulla sono valsi i tentativi di mettere la figlia in guardia contro il rischio di rimanere isolata e discriminata. Anzi la figlia l’ha prontamente contraddetta spiegandole che oggi tutte le bambine fanno così: “Selma, la mia compagna di classe porta il velo. E’ lei che me lo ha fatto provare la prima volta per vedere come mi stava. E’ lei che mi ha detto che è buona cosa obbedire a Dio, facendo quello che ci ha detto, perché noi non siamo eterni sulla terra, non siamo che di passaggio, pertanto non bisogna cedere alle tentazioni della vita”.
(http://www.liberte-algerie.com/)

15 dicembre 2007
A metà novembre, Usa Today ha anticipato i preoccupanti risultati di un’indagine da cui emerge che un quarto degli homeless negli Stati Uniti è costituito da veterani, per quanto questi ultimi rappresentino solo l’11% della popolazione.
E quel che è peggio è che non si tratterebbe solo di persone anziane: giovani reduci dall’Iraq e dall’Afghanistan già oggi sono costretti ad appoggiarsi a dormitori e mense cittadine, alla ricerca di un lavoro e spesso anche di terapie di sostegno.
La ricerca è stata condotta dalla National Alliance to End Homelessness, utilizzando i dati del Dipartimento dei Veterani e del Census Bureau che nel 2005 registrava appunto come 194.254 su 744.313 senzatetto fossero veterani.
La presenza tra gli homeless di reduci da guerre ancora in corso non promette nulla di buono, tanto più che i veterani della guerra in Iraq soffrono spesso di problemi mentali. Anche in Vietnam è andata così, finita la guerra si sono spenti i riflettori e nessuno ne ha più voluto sapere. E sarà così anche questa volta. John Keaveney veterano della guerra del Vietnam è lapidario: “La gente si stufa e il fatto che si tratti di giovani e gloriosi patrioti americani conta poco. Saranno solo reduci, così succede dopo ogni guerra”. Keaveney, che conduce un gruppo di sostegno, spiega anche come sia difficile prestare aiuto ai giovani, perché pensano di non aver nulla a che fare con i vecchi reduci “non sanno che in un paio d’anni rischiano di finire come loro”.
Effettivamente finire nel baratro è fin troppo facile: Jason Kelley, 23 anni, in Iraq con la Guardia Nazionale del Wisconsin, al ritorno ha preso un autobus per Los Angeles alla ricerca di una nuova vita. Ci ha messo poco a scoprire che senza lavoro non si trova casa e senza casa non si trova lavoro. Ha soggiornato in un motel di infimo livello fino a che ha esaurito i fondi e poi è finito al ricovero per veterani. Nel frattempo gli è stata diagnosticata una sindrome da stress post-traumatico.
(www.usatoday.com)

23 dicembre 2008
Per il papa l’Onu sarebbe relativista. Sarà, ma il Dalai Lama all’Onu ci va. Il mancato invito del Dalai Lama in Vaticano da qualcuno è stato messo in relazione con l’imminente annuncio della nomina del primo vescovo cinese ibrido, metà universale e metà patriottico. Novità molto interessante, ma non un poco relativa?

24 dicembre 2007
A Betlemme quest’anno c’è il tutto esaurito. Eric Silver, corrispondente dell’Independent, racconta di una città quasi incredula.
Joseph Canavati, proprietario dell’Alexander Hotel, situato sulla strada che porta alla Natività, ha appena esposto il cartello che annuncia che non ci sono più camere. I pellegrini sono tornati e le sue 44 camere quest’anno saranno occupate da americani, lituani, persino sudcoreani.
“Tutti i 2000 letti disponibili a Betlemme tra hotel e ostelli sono prenotati per Natale per la prima volta dal 2000”, l’anno d’inizio della seconda Intifada. In città sono attesi circa 40.000 pellegrini durante le vacanze. Per il sindaco siamo già al 60-70% dei numeri di prima dell’Intifada.
Quest’anno poi la festa musulmana Id al-Adha coincide col Natale così tutti i 32.000 abitanti di Betlemme hanno qualcosa da celebrare.
Anche il “muro di benvenuto” all’ingresso della città fa meno impressione grazie agli alberi addobbati e alle vetrine illuminate, pure le strade sono state sistemate. Israele in questi giorni si è dimostrata inusualmente collaborativo snellendo i controlli ai checkpoint che separano Betlemme da Gerusalemme, che distano poi 10 minuti d’auto.
Il turismo è da sempre la prima fonte di ricchezza di Betlemme e anche Israele ne beneficia. Il ministero per il Turismo ha registrato circa un milione di visitatori in terra Santa nel 2007 e la metà almeno sono pellegrini.
Ovviamente la strada resta tutta in salita: “La disoccupazione è scesa dal 60% al 45%, i negozi di souvenir sono aperti, le piccole fabbriche di oggetti di legno di ulivo e di madreperla sono tornate a produrre. E tuttavia le migliaia di lavoratori che prima erano impiegati a Gerusalemme continuano a essere banditi dall’entrare in Israele”.
Insomma, anche queste giornate rischiano di essere una magra consolazione per le famiglie che vedono i figli costretti ad andarsene. Tra l’altro se i pellegrini tornano, i cristiani stanno invece lasciando il paese.
“Prima della creazione dello Stato di Israele nel 1948, il 92% della popolazione della città era cristiana. Oggi il sindaco stima ci sia un 35% di cristiani a fronte di un 65% di musulmani, aggiungendo che almeno 400 famiglie cristiane hanno lasciato Betlemme negli ultimi tre anni”.
Samir Qumsieh, che dirige Nativity, una stazione televisiva cristiana privata è sconsolato: “L’emigrazione è terribile, in 15 anni qui non ci sarà più un solo cristiano”. Intanto tre dei suoi quattro fratelli hanno già lasciato il paese.
(http://news.independent.co.uk)

20 dicembre 2007
A novembre, il Washington Post ha pubblicato un reportage di Omar Fekeiki sui profughi iracheni rifugiati in Arizona, in particolare su Nadhum Ali al-Hasnawi e la sua famiglia, arrivata sei settimane fa a Tucson con la speranza di una vita nuova e in realtà da allora quasi reclusa nel proprio appartamento.
Infatti la moglie, 28 anni, interpellata, non va tanto per il sottile: “E’ come essere di nuovo in Iraq, là eravamo agli arresti domiciliari e qui siamo agli arresti domiciliari”.
Loro ovviamente si considerano fortunati, vista la sorte delle migliaia di iracheni che sono ancora in attesa di lasciare il paese, ma integrarsi in un paese di cui non conoscono né la lingua né la cultura non è molto facile. Tra agosto e settembre lì sono arrivate circa 34 famiglie di musulmani e cristiani. Complessivamente gli Stati Uniti hanno accolto 1600 profughi, un numero lontano dai 7000 promessi da Bush lo scorso febbraio
Come i cubani, i vietnamiti, e i profughi dal Laos e dal Sudan che li hanno preceduti, gli iracheni vivono un periodo di disorientamento, anche perché le agenzie predisposte ad aiutarli latitano. Se non altro, non dovranno più preoccuparsi per i figli, che qui avranno senz’altro un futuro diverso, pensa Hasnawi, 37 anni, sciita che in Iraq faceva il tappezziere e viveva con la moglie e i tre figli a Taji, una cittadina a predominanza sunnita a nord di Baghdad, dove avevano ricevuto diverse minacce di morte prima di fuggire in Libano.
Certo Tucson non è l’America che si erano immaginati: altro che montagne e neve ci sono addirittura gli stessi alberi che c’erano in Iraq!
La maggior parte di questi profughi non ha notizie dal proprio paese, e non avendo né internet né le parabole trascorrono le serate a casa dell’una o dell’altra famiglia a condividere i ricordi bevendo tè e dolcetti e ascoltando musica irachena dai cd che si sono portati da casa.
Per i bambini i primi giorni a scuola sono molto frustranti, molti tornano a casa in lacrime per l’impossibilità di capire la nuova lingua. D’altra parte le agenzie per i rifugiati nella scelta privilegiano criteri legati alla “vulnerabilità” e quindi danno la precedenza a chi ha bisogno di interventi sanitari o rischia la vita. Sapere l’inglese a questo punto non è così rilevante.
Anche per questo i profughi in genere vengono mandati in cittadine dove ci sono comunità musulmane o arabe. Ci sono anche i servizi sociali, perché l’arrivo è considerato un vero “schock culturale” e loro hanno pochissimo tempo a disposizione per superarlo. Lo Stato infatti si occupa di trovare loro una casa e di pagargli tre mesi di affitto, dopodiché tocca a loro…
Anche rispetto al lavoro le delusioni arrivano presto. Nonostante fosse stato garantito loro che avrebbero trovato un’occupazione affine alle loro competenze ci hanno messo poco a scoprire che in realtà il loro destino è perlopiù quello di fare le pulizie o gli inservienti negli hotel.
Oltretutto, al loro arrivo gli appartamenti erano privi, tra le altre cose, degli utensili da cucina e della biancheria per la casa.
Christy Voelkel e Erin Simpson, due residenti di Tucson, per accogliere i nuovi arrivati hanno così pensato di mandare un’email a amici, conoscenti e parrocchiani, chiedendo donazioni e lo scorso sabato hanno fatto visita alle famiglie portando ciò che serve in cucina e poi vestiti, biancheria, cuscini e giocattoli per bambini. “Un incoraggiamento, un modo per dar loro il benvenuto da parte della comunità e per dire che sappiamo cosa stanno passando”, ha spiegato Christy.
(http://www.washingtonpost.com)

30 dicembre 2007
Ma quanti sono i militanti di Al Qaeda?
I rivoluzionari totalitari in genere non hanno alcun futuro. Salvo che qualcuno, contando su questo, non pensi di strumentalizzarli ai propri fini. Casomai per prendersi il petrolio dell’Iraq.

2 gennaio 2008
La Cina ha un enorme fabbisogno energetico. Nel 2006 il consumo di energia, duplicatosi in dieci anni, è stato il secondo al mondo. L’intensiva produzione industriale, high-tech soprattutto, e la crescita dei consumi (nel 2020 supererà gli Usa per autoveicoli immatricolati) sommate all’inquinamento ne fanno il paese con la più alta urgenza di fonti rinnovabili. La maggior parte dell’energia è fornita da centrali idroelettriche e dal carbone, ma i consumi di petrolio, per metà importato, sono in aumento e presto il paese avrà il tasso di emissioni di CO2 più elevato del mondo. La necessità di alternative è impellente: qui più che altrove efficienza energetica, carbone pulito, centrali nucleari e fonti rinnovabili sono una priorità politica. In tema di fonti rinnovabili la Cina è già leader mondiale. Nel 2007, 10 miliardi di dollari sono stati investiti in piccole centrali idroelettriche, solari ed eoliche (secondo posto dopo la Germania). Gli investimenti in grandi impianti idroelettrici continuano a ritmi da 6 a 10 miliardi di dollari l’anno. Sul territorio hanno sede 50 aziende costruttrici di impianti eolici. La produzione di impianti fotovoltaici si attesta dietro Giappone e Germania, quella di impianti foto-termici è prima al mondo con 40 milioni di abitazioni (10%) dotate di acqua calda solare. Le biomasse puntano sugli scarti della produzione agricola (canna da zucchero e riso) e forestale. Nel settore biocarburanti, in crescita, l’etanolo è estratto dal mais, il biodiesel dagli oli di cottura. Se si riuscirà a usare la cellulosa, in pochi anni la Cina diverrà il maggior produttore di etanolo. Tutto ciò non basterà a risolvere i problemi energetici e ambientali, l’esperienza dell’inquinamento a Pechino è impressionante, così come la visione degli impianti solari ed eolici, voluti dal Congresso Nazionale del Popolo nel 2005. La questione cruciale è vedere fino a che livello sarà possibile spingere le fonti rinnovabili come volano dell’economia, con grandi attese per l’impatto sul futuro del pianeta. Se l’esito fosse positivo, la Cina potrebbe porsi alla guida del mondo nell’era delle fonti rinnovabili, così come hanno fatto gli Stati Uniti nella breve era del petrolio, cominciata poco più di un secolo fa.
(Powering China’s Development: The Role of Re­ne­wable Energy, World Watch Report, Novembre 2007).

4 gennaio 2008
Oggi l’Independent ha dedicato la prima pagina al trattamento riservato ai polli da batteria prima di arrivare nelle nostre tavole.
“In uno spazio molto ristretto un pollo da batteria ha 40 giorni di vita prima di essere macellato e venduto al supermercato a poche sterline.
Nel Regno Unito ogni anno vengono macellati circa 855 milioni di polli. La stragrande maggioranza di questi volatili, circa il 95%, vengono tenuti stipati al chiuso, quasi impossibilitati a muoversi per l’affollamento, in enormi capannoni di cui non solo gli animalisti, ma anche gli accademici denunciano le condizioni a rischio.
Ricerche hanno dimostrato che il 27% di questi polli hanno significative, quando non serie, difficoltà a camminare perché le loro zampe non possono sostenere il peso di un corpo abnorme selezionato geneticamente per diventare carne da mangiare. Molti soffrono inoltre di bruciature alle zampe per colpa della segatura intrisa di urina che viene cambiata solo ogni sei settimane. Uno ogni venti muore di morte improvvisa, in genere per una crisi respiratoria o cardiaca”.
(http://news.independent.co.uk)

6 gennaio 2008
A John Holloway è stata diagnosticato l’Aids circa vent’anni fa, quando un simile annuncio era una sentenza di morte e le terapie un miraggio. Oggi ha 59, è sopravvissuto all’Aids, ma ha più problemi del padre di 84 anni.
Insomma “le medicine hanno restituito a John Holloway un futuro, ma a quale prezzo?”, si chiede Jane Gross, che su questo ha fatto un breve reportage per il New York Times.
Vivo grazie a un cocktail di farmaci, oggi John, assieme a un’imprevista longevità, si trova a dover fare i conti con una condizione che sfida la visione prevalente dell’Aids come malattia cronica gestibile. Lui, che oggi vive in una residenza protetta per anziani, soffre di problemi generalmente legati alla tarda età, come insufficienza polmonare e renale, diabete, ulcera, una forma di depressione piuttosto seria, un cancro rettale e infine i postumi di una frattura all’anca. E’ evidente che non è questo lo “stato di salute” che si aspettava dall’introduzione della terapia salvavita coi farmaci antiretrovirali.
La domanda sottintesa, per qualcuno “eretica”, si sta ovviamente diffondendo tra gli scienziati, i medici, ma anche tra gli stessi pazienti.
Ancora ci sono pochi studi sulle cause di queste patologie legate all’invecchiamento tra i malati di Aids. Una delle ipotesi è che il sistema immunitario e gli organi siano stati irreversibilmente attaccati prima dell’avvento dei nuovi farmaci e che questi ultimi abbiano prodotto ulteriori complicazioni per via della loro tossicità.
Certo è che dal 2001 al 2005 le persone Hiv positive con più di 50 anni sono aumentate del 77% e oggi rappresentano più di un quarto di tutti i casi degli Stati Uniti.
Lo studio più completo ad oggi è quello dell’Acria (Aids Community Research Initiative of America) che ha seguito circa 1000 “sopravvissuti” di lungo periodo a New York, pubblicato nel 2006, rileva in particolare la presenza di forme di depressione. Un’altra importante indagine, più orientata sul versante prettamente medico, si è posta specificamente le seguenti domande: “quali problemi di salute sono un effetto dell’età, quali dell’Hiv e che ruolo hanno i farmaci anti-Hiv?”.
I sopravvissuti come John, indeboliti dalla chemioterapia e dalle radiazioni, spesso costretti a casa, arrancano da una crisi all’altra.
Mancando degli studi approfonditi, i medici non sanno rispondere alle domande dei pazienti. In qualche modo stanno andando avanti assieme cercando delle soluzioni man mano che i problemi si presentano.
Jane Gross riporta anche il caso di Jeff, 56 anni, di New York, a cui è stato ugualmente diagnosticato l’Aids nel 1987. Anche lui si chiede spesso se ne valeva la pena. Gli è da poco stata sostituita un’anca per via di una grave forma di necrosi vascolare, per non essere costretto in sedia a rotelle avrà bisogno di un secondo intervento. La necrosi vascolare potrebbe essere causata dagli steroidi usati dai primi malati di Aids contro la polmonite.
Jeff è sconsolato: “Il virus è sotto controllo e io dovrei essere in uno stato di estasi, ma non sono nemmeno in grado di allacciarmi le scarpe e salire e scendere le scale della metropolitana”.
Le ossa di Jeff sono gravemente e inspiegabilmente intaccate dall’osteoporosi e, come se non bastasse, è comparso il Parkinson che gli causa problemi di memoria e tremori. Anche tra i membri del suo gruppo di supporto sono in molti a ritenere le patologie legate all’invecchiamento ben più gravi dell’Aids in sé. Uno dei partecipanti al gruppo, 69 anni, ha avuto diversi infarti e un triplo bypass e il suo medico gli ha già predetto che morirà più verosimilmente per un attacco di cuore che per l’Aids.
Patologie cardiovascolari e diabete sono associati a una condizione chiamata “lipodistrofia” che ridistribuisce il grasso lasciando il viso e le estremità scarni, la pancia gonfia e la schiena curva. Inoltre la lipodistrofia aumenta il colesterolo e causa intolleranza al glucosio.
Per qualcuno, come Larry Kramer, oggi 73 anni, fondatore di vari gruppi di “advocacy” per i malati di Aids e “sopravvissuto di lungo periodo” lui stesso, era prevedibile che prima o poi sarebbe successo data la potenza dei farmaci antiretrovirali: “Quanto a lungo pensiamo che il corpo umano possa tollerare un simile bombardamento costante? Beh, ora vediamo che in effetti molti corpi non ce la fanno”. Insomma, si pensava di essere fuori dal tunnel “e invece dobbiamo ricominciare ad avere paura”.
Marty Weinstein, infettato nel 1982, che a 55 anni soffre già di osteoporosi, ha un pacemaker ed è stato curato per un cancro all’ano, non è di diverso parere. Ciò che lo fa disperare è soprattutto la depressione, che il fatto di non ricevere risposte alle sue domande certo non aiuta: “So che la prima preoccupazione era tenerci in vita, ma ora che viviamo di più, chi ci aiuta ad andare avanti in queste condizioni?”.
(www.nytimes.com)

8 gennaio 2008
Pubblichiamo un brano dell’intervento di Gianni Marchetto sulla strage alla ThyssenKrupp, pubblicato sul mensile del Cipes Piemonte.
Domanda: perché tutti quegli estintori in una acciaieria? Perché nel processo di laminazione di una acciaieria il fenomeno di piccoli incendi è sempre presente. In quanto 1° la lamiera o il profilato che passa attraverso i rulli per la sua deformazione è sempre caldo: ad una temperatura di circa 800 gradi, 2° per l’uso continuo dell’olio minerale che serve da un lato per fare i dovuti trattamenti termici al prodotto laminato, e per lubrificare tutte le parti degli impianti sempre in movimento. Al che nel processo di lavoro ci sono continue scintille che possono provocare piccoli o grandi incendi.
Per cui ne viene per questi impianti una esigenza continua di manutenzione, di manutenzione programmata: ogni tot di ore occorre procedere alla manutenzione e sostituzione di interi parti dell’impianto perché sia sempre in grado di produrre senza causare intoppi o fermate o tragedie come quella che è avvenuta per i 10 lavoratori alla linea 5 di laminazione. Occorre anche precisare che l’uso degli estintori deve essere molto accorto nel senso che un estintore una volta usato, anche per poco, perde tutta la sua capacità e funzione.
Alla ThyssenKrupp è in corso una inchiesta della magistratura che avrà il compito di appurare le cause del disastro. Però da questa grave vicenda si possono trarre alcune osservazioni:
Il problema non è solo nella mancata ispezione dall’Asl o nella carenza degli Ispettori del Lavoro. Da circa 20 anni si sa che l’organico presente tra gli ispettori dell’Asl è carente di oltre il 20%. Cosa grave in sé, però ancorché fosse ripianato cosa potrebbero rispetto alle oltre 60.000 imprese nella città di Torino? Ma è solo con più controlli che si potrà far fronte al fenomeno che da oltre 10 anni vede la situazione rimanere sempre la stessa? Quattro morti al giorno (ogni morto costava nel 1996 350 milioni), oltre 900.000 infortuni l’anno, sono in aumento le malattie professionali, ecc. e sì che dal 1994 in Italia c’è una nuova legislazione: il D.Lgs. 626/94, come mai non è cambiato quasi niente?
Occorre sapere che l’80% degli infortuni avviene nelle imprese con meno di 15 addetti (fonte Inail). In queste imprese il Documento di Valutazione dei Rischi (previsto dalla 626) è redatto in proprio dal datore di lavoro. La presenza dei Sindacati in queste imprese in pratica è pressoché nulla, quindi manca il Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza.
Chi è l’imprenditore: in genere è un ex lavoratore con una buona professionalità, ma a differenza di un barista (il quale per aprire un Bar deve sostenere un esame) il nostro per fare l’imprenditore edile o altro basta che vada ad iscriversi alla Camera di Commercio. Il nostro ha chiaro un obiettivo: farsi ricco in fretta (almeno questa è la sua chiara aspirazione). Non sa nulla né del Diritto del Lavoro in Italia, né della Legislazione alla Salute e Sicurezza. Occorrerebbe quanto meno prima della sua “intrapresa” fargli fare un breve corso di formazione ed un relativo esame per poter fare l’imprenditore. Ma fra tutti i recenti interventi ha ragione Luciano Gallino su Repubblica del 7 Dicembre, ovvero Marco Vitale sul Sole 24Ore (!) dell’11 Dicembre, quando entrambi mettono in discussione la mancanza di una cultura dell’impresa italiana sui temi della sicurezza e della salute dei lavoratori.
La monetizzazione della salute. Per tutti gli anni ’70 una intera generazione vinse una battaglia storica contro la monetizzazione della salute: “in cambio di quattrini non ti do la mia salute, devi bonificare l’ambiente di lavoro”. Ora i lavoratori vivono in un ritorno della “monetizzazione della salute”, non più ovviamente nel rapporto tra mansione specifica e “paga di posto”, ma nel rapporto tra “presenza in officina e salario”. La sconfitta è grande per il movimento dei lavoratori: vedi il fenomeno abnorme degli straordinari (alla ThyssenKrupp fino a 16 ore quando normalmente fanno 10-12 ore al giorno). In pratica abbiamo i “fondamentali” in mano alle imprese: l’orario di lavoro e il salario.
A maledire il tutto vi è poi il fenomeno del lavoro precario, di per sé causa di infortuni per sé e per gli altri lavoratori (qual è mai il processo di formazione sulla mansione che questi hanno o ricevono?): tra i lavoratori sono quelli che più facilmente si infortunano. Il tutto aggravato dal fenomeno della immigrazione che vede lavoratori che vengono da altri paesi a sostituire i nostri specie nei posti più pericolosi e più gravosi, sottoposti al ricatto del lavoro, che bisogna averlo per non sprofondare nella clandestinità.
Gianni Marchetto (presidente
Ass. Esperienza & mappe Grezze)

10 gennaio 2007
“La scena trasmessa in tv martedì sera è stata una delle più crudeli e vergognose viste recentemente: un bambino di due anni e mezzo, Ahmed Samut, originario di Khan Yunis, e una bambina di nove anni e mezzo, Sausan Jaafari, di Rafah, che attraversano da soli il passaggio di Eretz, dopo essere stati strappati dalle braccia dei loro genitori in lacrime”, così comincia l’editoriale di Haaretz di oggi.
I due bambini, gravemente malati di cuore, hanno bisogno di un intervento urgente e il Wolfson Medical Center di Holon ha accettato di includerli nel proprio programma di solidarietà “Save a Child’s Heart”. Purtroppo alla generosità dell’ospedale ha fatto da contraltare la brutalità dell’esercito israeliano che non ha permesso ai genitori dei due bambini di accompagnarli e assisterli in questo difficile viaggio. Per loro “ingresso vietato”, così recita il crudele decreto
“L’immagine dei bambini che camminano soli verso un’operazione che certo li spaventa moltissimo avrebbe dovuto scuotere l’intero Paese. Avrebbe dovuto tormentare tutti gli israeliani, a prescindere dal loro orientamento politico. Tutte le mamme e i papà israeliani avrebbero dovuto mettersi nei panni di questi sfortunati genitori…”.
Questa volta è davvero difficile appellarsi a motivi di sicurezza, tanto più che durante un precedente intervento i genitori avevano invece avuto il permesso di accompagnare i figli.
Comunque non è troppo tardi ancora. Si potrebbe ancora intervenire e rimediare, soprattutto all’immagine “morale” di Israele. “Quell’immagine vista in tv lo scorso martedì ha evocato dei pensieri molto tristi”.
(www.haaretz.com)

11 gennaio 2008
L’informazione sulla cittadinanza delle donne che ricorrono in Italia ad un’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) è disponibile solo dal 1995, ma svela, per l’ultimo decennio, uno scenario di grande cambiamento di questo fenomeno. A partire da quella data, infatti, secondo i dati ufficiali (Istat, 2007), i tassi di abortività (standardizzati per età) non sarebbero mutati nel loro complesso, mantenendosi poco sopra il valore di 9 aborti all’anno per ogni mille donne, ma la stabilità è frutto di due andamenti contrapposti. Da una parte un calo costante -di circa il 13%- dei livelli di abortività delle italiane, dall’altra un aumento invece del 16% del ricorso all’aborto delle straniere. Le donne straniere ricorrono all’Ivg circa quattro volte di più di quelle italiane e questa proporzione aumenta quasi a cinque volte per le donne sotto i 24 anni. Il tasso di abortività volontaria è quasi del 30 per mille per le donne straniere, contro meno dell’8 delle italiane. Inoltre, mentre le italiane che hanno praticato un aborto volontario tendono a non ripetere l’esperienza nel corso della propria vita, le straniere vi fanno invece ricorso più volte: si stima un valor medio di una volta e mezzo a testa nell’arco della vita, che arriva a oltre due volte per alcune nazionalità, quali quella nigeriana. Insomma: mentre le italiane ricorrono sempre meno all’aborto, il fenomeno appare invece diffuso tra le donne immigrate. Le polemiche di questi giorni sono quindi solo strumentali: il problema non sono le italiane, che abortiscono sempre meno, ma le straniere.
Questo fenomeno, dalle dimensioni rilevanti e preoccupanti, richiederebbe misure di prevenzione indirizzate specificamente a queste donne e alla loro salute riproduttiva.
Letizia Mencarini (www.neodemos.it)

15 gennaio 2008
La notizia della decisione del sindaco di Milano, Letizia Moratti, di escludere dagli asili i bambini stranieri irregolari, come sono stati definiti, ha suscitato giusta indignazione. Ci sono stati articoli belli e condivisibili. E’ mancata, almeno negli articoli che ho letto, la ricostruzione causale completa di ciò che accade e la successione degli eventi negli ultimi vent’anni.
Vent’anni fa la situazione dei minori stranieri era grottesca. Dato che, allora come ora, la politica reale della Repubblica italiana era di tollerare l’ingresso irregolare e regolarizzarlo con cadenza più o meno quinquennale, i minori erano presenti perché ricongiunti di fatto. Potevano avere in Italia uno dei genitori, o ambedue, ma, in mancanza di accordi efficaci con lo stato di provenienza, non potevano né avere il permesso di soggiorno qui né essere rispediti da un genitore o da parenti nel paese di origine.
Si usava dire che gli unici minori stranieri regolari erano quelli trattenuti nel carcere minorile o sotto processo, perché avevano il permesso di soggiorno per motivi di giustizia.
Poi il tribunale dei minori di Torino prese una iniziativa coraggiosa ed efficace. Sostenne l’applicazione della convenzione di New York per i diritti dei minori, sottoscritta dalla Repubblica, a norma della Costituzione, anche in mancanza di una legge positiva. Stipulò un’intesa per l’inserimento dei minori con la Regione Piemonte, la Provincia e il Comune di Torino, la Prefettura e la Questura di Torino, la Caritas Migrantes, le scuole per l’insegnamento dell’italiano agli adulti stranieri, una rete di associazioni; riuscì ad ottenere l’iscrizione regolare e la regolare promozione dei minori di fatto presenti, anche in mancanza di permesso di soggiorno.
La legge Turco-Napolitano sanò le contraddizioni che si creavano col permesso di soggiorno per minore età, concesso cioè a tutti i minori presenti di fatto, in quanto minori, prevedendo il rimpatrio solo nell’interesse del minore, solo nel caso cioè che genitori e parenti fossero dimostrabilmente in patria e fossero in grado di accoglierli.
Gli organi di controllo della situazione del minore non hanno mai funzionato bene; ci sono state situazioni indecidibili, si è creato un limbo dei minori non espellibili ma non realmente integrabili, c’è stato l’ovvio problema della frequente irregolarità del minore al momento del raggiungimento della maggiore età, con forti differenze tra province per i diversi comportamenti di fatto di prefetture e questure, ma c’è stata almeno la presunzione della prevalenza dei diritti dei minori sulle difficoltà di bilancio dei comuni.
Anche a Torino ci sono stati assessori, ricordo Lepri, che hanno sostenuto di non poter pagare a piè di lista le spese di tutti i minori in arrivo, che secondo lui arrivavano preferenzialmente nei comuni più accoglienti e rispettosi delle norme.
In generale però diventò più difficile sbattere fuori i minori. Rimase, e rimane, non affrontata la causa prima del problema: l’alto numero di irregolari di lungo corso, che vivono e lavorano in Italia, ricongiungono di fatto i figli ma passano da una sanatoria a una proroga di decreto flussi senza riuscire a fare emergere il lavoro che di fatto hanno.
E’ lì il marcio. Nasce da lì il problema dei minori formalmente non accompagnati che però hanno i genitori qui, dormono a casa loro e devono fingere di avere un diverso domicilio solo per non metterli nei guai.
C’è bisogno della nuova legge, subito!
(Francesco Ciafaloni)

16 gennaio 2008
Dicono che dei guerriglieri baatisti, di quelli che sono stati bravissimi a uccidere marines, sono a libro paga degli americani. E che questa è la mossa vincente. Di che?