La lettera di Calvino
Il 19 febbraio Claudio Magris ha pubblicato sul Corriere un editoriale contro l’aborto. Pubblichiamo la lettera che Italo Calvino gli scrisse in seguito all’uscita di un suo articolo sempre sul Corriere nel 1975.
Parigi, 3/8 febbraio 1975
Caro Magris,
con grande dispiacere leggo il tuo articolo Gli sbagliati (Corriere della sera del 3 febbraio 1975, ndr). Sono molto addolorato non solo che tu l’abbia scritto, ma soprattutto che tu pensi in questo modo.
Mettere al mondo un figlio ha un senso solo se questo figlio è voluto, coscientemente e liberamente dai due genitori. Se no è un atto animalesco e criminoso. Un essere umano diventa tale non per il casuale verificarsi di certe condizioni biologiche, ma per un atto di volontà e d’amore da parte degli altri. Se no, l’umanità diventa -come in larga parte già è- una stalla di conigli. Ma non si tratta più della stalla “agreste”, ma d’un allevamento “in batteria” nelle condizioni d’artificialità in cui vive a luce artificiale e con mangime chimico.
Solo chi -uomo e donna- è convinto al cento per cento d’avere la possibilità morale e materiale non solo d’allevare un figlio ma d’accoglierlo come una presenza benvenuta e amata, ha il diritto di procreare; se no, deve per prima cosa far tutto il possibile per non concepire e se concepisce (dato che il margine d’imprevedibilità continua a essere alto) abortire non è soltanto una triste necessità, ma una decisione altamente morale da prendere in piena libertà di coscienza. Non capisco come tu possa associare l’aborto a un’idea d’edonismo o di vita allegra. L’aborto è una cosa spaventosa....
Nell’aborto chi viene massacrato, fisicamente e moralmente, è la donna; anche per un uomo cosciente ogni aborto è una prova morale che lascia il segno, ma certo qui la sorte della donna è in tali sproporzionate condizioni di disfavore in confronto a quella dell’uomo, che ogni uomo prima di parlare di queste cose deve mordersi la lingua tre volte. Nel momento in cui si cerca di rendere meno barbara una situazione che per la donna è veramente spaventosa, un intellettuale impiega la sua autorità perché la donna sia mantenuta in questo inferno. Sei un bell’incosciente, a dir poco, lascia che te lo dica. Non riderei tanto delle “misure igienico-profilattiche”; certo, a te un raschiamento all’utero non te lo faranno mai. Ma vorrei vederti se t’obbligassero a essere operato nella sporcizia e senza poter ricorrere agli ospedali, pena la galera. Il tuo vitalismo dell’“integrità del vivere” è per lo meno fatuo. Che queste cose le dica Pasolini, non mi meraviglia. Di te credevo che sapessi che cosa costa e che responsabilità è il far vivere delle altre vite.
Mi dispiace che una divergenza così radicale su questioni morali fondamentali venga a interrompere la nostra amicizia.
(I. Calvino, Lettere 1940-1985, Meridiani Mondadori, Milano 2000, pp. 1264-66. Per gentile concessione degli eredi di Italo Calvino)

L’ultima parola è la nostra. Appello.
Aderiamo e pubblichiamo l’appello “L’ultima parola è la nostra. Dall’evidenza scientifica all’etica della responsabilità” contro gli attacchi alla legge 194 e alle donne in generale.
Contrastiamo l’abitudine a pensare che sui temi essenziali che riguardano la nostra vita, le nostre esperienze che si fanno corpo e anima, noi donne e uomini comuni fatichiamo a prendere una decisione consapevole.
Osserviamo che in una società di esperti hanno autorevolezza lo scienziato, il filosofo, il teologo, il giurista e recentemente il bioeticista, tutti “rigorosamente” di sesso maschile, mentre noi donne non abbiamo parola pubblica. Ma oggettività scientifica e soggettività non sono mondi separati e le tecnologie che riguardano la vita e la morte sono oggi tali da modificare la percezione, il senso e quindi la lettura che noi diamo di esse. Dal concepimento al morire, le opportunità (e i rischi!) offerti dalle biotecnologie mediche ci obbligano singolarmente e collettivamente a operare scelte e mettere in atto decisioni spesso difficili. Ad esse la scienza contribuisce in termini di conoscenza e ampliamento delle possibilità. Ma l’ultima parola spetta alla donna, all’uomo che di quelle scelte vivranno le conseguenze.
Noi contrastiamo la violenza di un’etica dei principi indiscutibili e astratti con l’etica della responsabilità e denunciamo che il vuoto lasciato dall’assenza di una cultura laica delle istituzioni è riempito dalla Chiesa e dai codici deontologici delle associazioni e/o corporazioni degli esperti, scientifici e non, che dettano la propria legge.
Le questioni eticamente sensibili diventano così strumenti che mirano a fare dei corpi di uomini e donne le nuove “res publicae”, su cui e attraverso cui arrivare alle “nuove sintesi” politiche che spesso avvelenano la civile convivenza e il quadro democratico.
Questo sta accadendo: ieri sulla legge 40, oggi sulla 194, la moratoria, la lista di Ferrara e l’incursione all’ospedale di Napoli!
Riproponiamo l’autonomia e la libertà di una donna di scegliere per se stessa anche quando è “uno e due contemporaneamente”, cioè quan­do è gravida, affermando che è portatrice di una responsabilità che ne fa un soggetto morale capace di compiere la scelta di essere o non essere madre e di interrogarsi sul senso e la qualità di quella vita che ha deciso di mettere al mondo.
La Chiesa Cattolica ha riconosciuto un’anima alle donne nel 1431! Quanti secoli ancora per essere riconosciute soggetti morali?
Denunciamo la voluta confusione che ha animato il recente dibattito sull’obbligo di rianimazione dei feti vitali anche in presenza di una decisione contraria della madre. Si sono confuse questioni diverse: aborto terapeutico e nascita prematura.
Aborto terapeutico e nascita prematura stanno su piani diversi, hanno ricadute ed effetti differenti, le cui responsabilità non sono del tutto chiare dal punto di vista della legge.
Nel primo caso il riferimento è la legge 194 dove in nome del diritto alla salute della madre, ed in presenza di una grave malformazione del feto, la legge consente alla donna di porre fine a quella vita.
Nel secondo caso siamo in presenza di un trattamento terapeutico su un “minore” già nato che non è in grado di esercitare quel “consenso informato” di cui il medico ha bisogno per agire sul corpo del paziente e che è l’espressione della autonomia di scelta di ogni cittadino/a sancita dalla Costituzione.
Tale questione non riguarda la 194 ma il diritto di limitare i trattamenti di rianimazione e di sostegno vitale.
Un feto di 4- 5 mesi può esercitare questo diritto? La risposta è evidente: no! Allora chi lo fa per esso? Chi è il soggetto morale che lo può fare? Una legge astratta dello Stato in nome di un’etica dei principi, un codice deontologico medico che si fa legge o la donna che l’ha nel suo corpo (quel feto è parte di essa) e la cui etica della responsabilità le consente di coniugare i fatti, che inaspettatamente le vengono presentati, con i valori che fino a quel momento l’hanno conformata?
Noi rispondiamo che quella donna che ha dolorosamente scelto di interrompere, a 5-6mesi dall’inizio, una gravidanza desiderata è l’unica autorizzata a parlare e a prendere la decisione.
(Promotrici: Elena Del Grosso, genetista, docente di bioetica, Università di Bologna, rete delle donne di Bologna; Maddalena Gasparini, medico, Libera Università delle Donne di Milano; Eleonora Cirant, Ass. Osa-Donna, Osservatorio Donne Salute; Lea Melandri, Libera Università delle Donne Milano).

1 febbraio 2008
“Era pomeriggio. Stavo scrivendo il mio nuovo post, che avrebbe dovuto parlare del rifornimento di materiale sanitario, quando, improvvisamente, ho sentito un’enorme, terribile esplosione, tanto da coprire la musica ad alto volume nelle mie cuffie. Subito ho pensato che si trattasse dell’ennesima autobomba, o di un’esplosione nella strada vicina, finché il mio capo non mi ha chiamato per dirmi che l’esplosione era avvenuta ad un miglio di distanza!!! Non mi sono reso conto della portata del disastro fino al pomeriggio successivo, quando ho incontrato in clinica alcuni miei amici, che avevano visto il luogo dell’esplosione. Alle dieci era stato dichiarato il coprifuoco. C’erano molti pazienti venuti a ricevere cure, ed a lamentarsi del dolore.
Quel giorno c’eravamo solo io e un dentista anziano a seguire un paziente difficile. Dovevo scegliere se rimanermene lì oppure seguire i miei pazienti. Ovviamente ho scelto la seconda ipotesi. Sapevo che questi pazienti non avrebbero ricevuto cure professionali finché sarebbe durato il coprifuoco, cosa ben poco piacevole, specialmente per quelli con i denti in cattive condizioni, cui serve l’estrazione.
Così ho fatto estrazioni a tre pazienti, e fissato una visita ad un altro. Non appena ho finito, ho chiamato mio fratello, che mi ha detto che il nostro distretto era stato chiuso. Per il momento, non c’era modo di tornare a casa.
Sono rimasto un po’ con i miei amici dell’ospedale. Ero un po’ triste, a causa delle miserabili condizioni di sicurezza in cui viviamo. Per stare meglio, un amico ha proposto di andarcene in riva al fiume, dietro l’ospedale. Il paesaggio era meraviglioso. Ho cercato di passare la serata senza parlare di nulla che avesse a che fare con l’esplosione, la guerra e nemmeno la politica. La mattina dopo, ho visto alcune persone aggirarsi per le strade deserte, così mi sono cambiato, e me ne sono andato a casa, nonostante il coprifuoco. Erano circa due miglia di cammino. Ce l’ho messa tutta per evitare le strade vicine all’esplosione, ma non appena ho raggiunto la strada principale, uno dei soldati iracheni mi ha sbarrato la strada, impedendomi di proseguire oltre, e sono stato costretto a prendere una strada tra quelle colpite.
Era un disastro. Neanche la parola disastro basta a descrivere il crimine che lì si era consumato. Era come se ci fosse caduta una bomba atomica. Gli alberi erano stati lanciati centinaia di metri lontani. I mattoni dei palazzi erano dappertutto. I cavi dell’alta tensione erano a pezzi, ovunque. Non riuscivo a distinguere le abitazioni l’una dall’altra, o dai negozi. Un ciclone fa meno danni. Me ne rimanevo lì, sbalordito. Non vedevo uno spettacolo simile da quando un b52 aveva bombardato un palazzo a Baghdad. Senza esagerare, venti case erano pesantemente danneggiate, ed altre trentacinque portavano i segni della bomba. Chi era il mostro che aveva fatto tutto ciò? Il diavolo in persona. Le persone che vivono in questa zona sono povere e gentili, e non potrebbero fare del male a nessuno. Uno lavora più che può, fa del suo meglio per costruire una casa dove crescere i propri figli, per una vita di dignità, ed in un attimo tutto scompare, così facilmente. Dopo aver visto tutto questo, me ne sono andato a casa, sconfortato. Sono già passati due giorni, ma ancora non riesco a sorridere, nemmeno nelle situazioni più divertenti. Non sono riuscito a fare delle foto da postare, ma proverò a trovarne”.
(http://baghdadentist.blogspot.com)

8 febbraio 2008
Il New York Times ha dedicato un breve reportage alla Junior High School 22, nel Bronx, o meglio al nuovo preside di questa scuola frequentata quasi esclusivamente da neri e ispanici, il settimo in soli due anni: Shimon Waronker, membro della setta Chabad-Lubavitch del Giudaismo Hassidico, barba, e uno yarmulke (kippah) di velluto.
Il suo primo giorno, nel 2004, è stato particolarmente istruttivo: al suo arrivo stavano arrestando uno studente, cercando di tener a bada la folla. D’altra parte, la sorpesa è stata duplice: alla vista del nuovo responsabile, tra insegnanti, studenti e genitori l’incredulità era palpabile.
Eppure, la storia di Shimon Waronker insegna come il più improbabile dei candidati possa produrre risultati sorprendenti. Non ultimo il fatto che dal suo arrivo la scuola è stata tolta dalla lista delle dodici più pericolose della città e che la frequenza tra i 670 studenti si è attestata al 93%.
D’altra parte Waronker non è certo rimasto con le mani in mano. Per prima cosa ha rimpiazzato metà del corpo docente, suscitando non poche perplessità e attacchi (tra questi l’accusa di considerare qualsiasi critica un atto di infedeltà).
Difficile spiegare il suo successo. Per molti studenti e genitori è stato decisivo il fatto che parlasse spagnolo: sua madre era cilena, il padre americano e ha lasciato il Sudamerica a 11 anni, arrivando nel Meryland senza saper parlare inglese.
Prima di diventare un ebreo ortodosso ha fatto anche due anni nell’esercito, inclusi sei mesi di intelligence, che pare siano tornati utili, quando è stato il momento di fare i “duri”, in particolare con una banda di ragazzine. Per eliminare l’abbigliamento “colorato”, segno di appartenenza alle varie gang, ha istituito una divisa della scuola e il primo anno ha espulso così tanti studenti da suscitare un mezzo scandalo. L’eccentricità di alcuni suoi comportamenti sono rimasti nella memoria della scuola: all’indomani di alcuni episodi violenti (un ragazzino aveva quasi perso la vista e a un altro era stato rotto un braccio) ha riunito i suoi insegnanti e li ha invitati a pregare con lui. Cosa che più di qualcuno ha vissuto con un certo disagio. Certo, la sua passione per questo mestiere è fuori discussione. All’inizio trascorreva talmente tante ore a scuola che la moglie l’ha invitato a mettersi una brandina in ufficio, così almeno evitava di fare la spola. Per lui essere leader non significa solo chiedere molto -forse, troppo- ai suoi insegnanti (altra cosa che molti criticano), ma anche incontrarli uno per uno, chiedendo loro di condividere con lui visioni e obiettivi, per esempio. Il suo attuale assistente, Lynne Bourke-Johnson, se lo ricorda ancora quando, al primo incontro il preside ha esordito: “Bene, Lynne, come posso aiutarti?”. Non credeva alle sue orecchie.
Insegnanti e studenti sono stati schedati, questi ultimi al fine di creare una sorta di organo di rappresentanza interna. “Come dice il manuale della controinsurrezione -ha spiegato- la prima cosa da fare è invitare i rivoltosi a entrare a far parte del governo”.

12 febbraio 2008
Riceviamo e volentieri pubblichiamo la Lettera aperta delle Donne in Nero di Torino ai responsabili della Fiera del Libro di Torino.
Intervenire sulla vicenda relativa alla Fiera del Libro di Torino 2008 ci sembra a continuo rischio di fraintendimenti. Ci pare infatti che il dibattito si sia polarizzato sulla questione del “boicottaggio” anziché sul significato dell’invito allo stato di Israele che secondo noi è il vero nodo del problema.
Sentiamo però la responsabilità di esprimerci a partire dalla storia che ci lega ormai da vent’anni ad una pratica di relazioni con donne israeliane e palestinesi: relazioni non sempre facili, segnate anzi spesso dalla difficoltà di riconoscersi nelle differenze senza che queste si cristallizzino in contrapposizioni insuperabili. Difficoltà tanto maggiore perché siamo tutte consapevoli che non c’è simmetria nella situazione in cui ciascuna si trova: proprio per questo il nome che noi abbiamo assunto è quello delle “donne in nero” israeliane che hanno posto al centro della loro identità politica la denuncia dell’occupazione dei territori palestinesi da parte del proprio stato.
“Non posso dire di non sapere” è la ragione profonda che induce molte di loro, e noi insieme a loro, a sentirci in dovere di guardare e di vedere che cosa hanno significato il 1948 e il 1967 per entrambe le società che vivono in quell’area e che cosa sta accadendo tuttora, quando il Muro di separazione, la crescita degli insediamenti, l’assedio di Gaza, le uccisioni, le distruzioni rendono sempre più fragili le speranze in una pace giusta.
Riteniamo perciò che vada prestato serio ascolto alle parole di Suad Amiry, intellettuale palestinese, che intervenendo sulla questione ha scritto: “La Fiera del Libro di Torino non si è limitata a scegliere come ospite d’onore l’occupante, ma ha invitato l’occupato (persone come me) a partecipare alla celebrazione del giorno della sua indipendenza” (La Stampa, 01.02.08). E’ tale lo squilibrio insito in una simile impostazione che sentiamo il dovere di fare nostra la domanda posta da Remo Ceserani: “Come si fa a pensare di chiedere a dei palestinesi di prestarsi a celebrare, anche solo implicitamente, l’anniversario della fondazione dello Stato di Israele?” (il manifesto, 30.01.08).
In una lettera di risposta a Ibrahim Nasrallah, poeta palestinese che anche ha scritto di non poter accettare l’invito alla Fiera, il direttore della Fiera stessa, Ernesto Ferrero, ha affermato: “Non si può parlare di Israele senza parlare di Palestina” (Ansa, 23.01.08). Ne siamo convinte, ma dubitiamo che lo si possa ritenere onestamente possibile alla luce del percorso seguito: sul sito della Fiera in data 18 dicembre 2007 compariva la frase “In occasione della ricorrenza del 60° anniversario della sua fondazione, Israele ha scelto Torino come la vetrina più adatta ....”, mentre il presidente della Fiera, Rolando Picchioni, ha poi dichiarato: “E’ stato Israele che si è offerto. E noi abbiamo accolto la sua candidatura con entusiasmo, trattandosi di un paese e di una cultura con molte cose da raccontare” (Ansa, 23.01.08).
Dunque si è trattato chiaramente di un fatto politico e di una scelta di parte: “Quando un conflitto è in atto, dimostrare segni di solidarietà con una sola parte si chiama prendere parte. Festeggiare l’anniversario della creazione dello stato di Israele invitandolo come ospite d’onore alla Fiera del Libro di Torino, oggi poi nella situazione terribile che vive il popolo palestinese, è una presa di posizione netta e chiara” (Karim Metref, lettera aperta “Israele ospite d’onore. Non è né il luogo né il momento”, febbraio 2008).
A nostra volta intendiamo esprimere una “presa di posizione netta e chiara” contro le illegalità, le violazioni dei diritti umani, il continuo uso della violenza operato dallo stato di Israele, con il suo governo e il suo esercito, ed è per queste ragioni che critichiamo la scelta fatta dalla Fiera del Libro e consideriamo un’ingiustizia e un errore insistere in una modalità che prevede “la forma-nazione come costitutiva delle identità della Fiera” (Ester Fano, il manifesto, 30.01.08).
Questo però non significa affatto il rifiuto o la censura degli scrittori e delle scrittrici provenienti da Israele: ognuno e ognuna potrà portare un punto di vista e un’esperienza del mondo che certo contiene anche valenze politiche con cui va tenuto aperto il dialogo e il confronto, mentre non ci pare accettabile ascriverle/i alla celebrazione di un evento di stato sul quale gravano tuttora troppi problemi insoluti.
Vogliamo inoltre riportare una dichiarazione rilasciata da Sergio Chiamparino, sindaco di Torino, che, dopo aver ribadito di non voler “arretrare di un millimetro. Israele è stato scelto come stato ospite e deve rimanere tale”, ricorda la “tradizione di tolleranza” della “città di Primo Levi” (La Repubblica, 04.02.08). Quanto a “tradizione di tolleranza”, dubitiamo che il sindaco di Torino l’abbia sempre presente come un principio inderogabile cui attenersi: mesi fa abbiamo infatti avuto esperienza diretta del caso di vera e propria censura che ha riguardato la raccolta di scritti “Israele/Palestina, Palestina/Israele, sussidio informativo”, Comune di Torino 2006, curata e proposta per le scuole da alcuni gruppi pacifisti e Ong torinesi e pubblicata a cura del Comune di Torino. Dopo forti critiche da parte della comunità ebraica locale e dopo un intervento dell’ambasciatore israeliano, il sindaco ha disposto che la distribuzione del volume cessasse e nei primi mesi del 2007 esso è sparito dalla circolazione e inutili sono state le richieste di confrontarsi nel merito dei dissensi e delle critiche, come un atteggiamento aperto al dialogo invece vorrebbe.
Ancor più profondamente ci sentiamo però toccate dal richiamo a Primo Levi. Tra le ragioni per cui lo ricordiamo come una figura di straordinaria intelligenza e umanità c’è anche la lucidità e il coraggio con cui nel settembre del 1982, dopo la strage di Sabra e Chatila, egli affermò: “Dobbiamo soffocare gli impulsi di solidarietà emotiva con Israele per ragionare a mente fredda sugli errori dell’attuale classe dirigente israeliana” (Primo Levi, La Repubblica, 24.09.1982). Non possiamo sapere come si esprimerebbe oggi Primo Levi di fronte alle “punizioni collettive” che soffocano la popolazione della Striscia di Gaza sotto assedio, ma sappiamo che la Città di Torino, da anni gemellata con quella di Gaza, non ha preso alcuna iniziativa di solidarietà e questo a noi pare un penosissimo venir meno a ogni senso di umanità.
Tornando ancora una volta a quello che riteniamo il nodo politico ineludibile, è proprio la violazione di un senso condiviso di dignità umana ciò che induce le/gli invitate/i palestinesi al rifiuto a partecipare alla Fiera nei termini attuali: “Nel giorno della loro Nakba (catastrofe) i palestinesi spererebbero in una reazione di umanità, ricevono invece la vostra decisione che non prende in considerazione l’ingiustizia e la sofferenza” (Ibrahim Nasrallah, il manifesto, 30.01.08).
Quali atti vanno compiuti perché la Fiera possa davvero costituire un’occasione di confronto e di dialogo, anziché di rinnovate barriere e esclusioni? A conclusione dell’intervento che citavamo sopra, Suad Amiry -con una mossa di grande generosità, perché è ben difficile per “l’occupato” guardare imparzialmente all’“occupante”- rivolgeva alla Fiera del libro l’invito a “essere abbastanza coraggiosa da lasciar perdere tutto, ‘Indipendenza’ e ‘Nakba’ e celebrare un’autentica attività culturale di cui tutti possiamo fare parte. Quest’anno non c’è bisogno di ospiti d’onore”.
Facciamo nostro l’appello e di qui a quando si terrà la Fiera intendiamo continuare a denunciare l’ingiustizia di un invito che celebra la metà vincente di una storia e a prendere tutte le iniziative di cui saremo in grado per dare voce più ampia alla richiesta che sia finalmente riconosciuto il diritto anche delle donne e degli uomini palestinesi a una vita degna e a una parola libera.
(Franca Balsamo, Diana Carminati, Patrizia Celotto, Ada Cinato, Elisabetta Donini, Margherita Granero, Valeria Sangiorgi, Anna Valente)

18 febbraio 2008
Trentasei anni dopo, la storia si ripete? Quest’anno il partito democratico sembra sul punto di affidare la candidatura per le elezioni presidenziali al “candidato dei giovani”, il senatore dell’Illinois Barack Obama e questo avvenne anche nel 1972 le prime elezioni in cui i diciottenni poterono esercitare questo diritto. Quell’anno, migliaia di giovani volontari resi politicamente attivi dal ’68 e dalla guerra in Vietnam imposero all’apparato del partito il senatore del South Dakota George McGovern, pacifista e vincitore delle primarie dopo il ritiro dalla competizione di altri candidati più centristi.
Nel 1972 votò il 52% dei cittadini fra 18 e 24 anni ma McGovern fu rovinosamente sconfitto, ottenendo solo il 37,5% dei voti contro il 60% al presidente uscente Richard Nixon. Da allora, la partecipazione al voto dei giovani iniziò a declinare e, nel 2000, quel voto così prezioso e faticosamente conquistato fu esercitato solo dal 36% di chi aveva meno di 24 anni, molto meno della media dell’elettorato e in particolare del voto degli ultrasessantenni, due terzi dei quali si preoccupavano di andare a infilare la loro scheda nell’urna. Da allora, la partecipazione giovanile -stimolata dalle politiche bellicose dell’amministrazione Bush- ha ricominciato ad aumentare e nel 2004 ha votato il 46,7% dei giovani, ben dieci punti percentuali in più (http://www.census. gov/prod/2006pubs/p20-556.pdf). Quest’anno, dicono gli esperti, Obama potrebbe portare a votare più del 50% degli aventi diritto fra i 18 e i 24 anni, uguagliando o superando il record del 1972.
Non si tratta di una discussione puramente accademica: le migliaia di volontari che hanno contribuito ai successi della sua campagna elettorale nelle primarie (e soprattutto nei caucus, riunioni più ristrette dove gli attivisti hanno maggiore influenza) si regge soprattutto sui giovani e viene interpretato da molti giornali come una promessa di vittoria sicura per i democratici anche in novembre. Le cose sono però più complicate di quanto sembrino.
Se guardiamo alla partecipazione dei giovani in queste primarie di cui i mass media hanno dato un’immagine così “oceanica” troviamo in realtà delle cifre piuttosto deludenti. Per esempio, in Alabama ha votato il 19% dei giovani fino a 29 anni, contro il 36% di chi aveva più di 30 anni. In Arizona ha votato appena il 7%, contro il 25% degli altri elettori, in California il 17% contro il 32% degli adulti, a New York il 12% rispetto al 20%. Solo in New Hampshire troviamo una partecipazione significativa dei giovani, il 43%, abbastanza vicina ma comunque inferiore al 55% del resto del corpo elettorale (e, fra l’altro, in New Hampshire ha vinto Hillary Clinton e non Obama).
Le cifre raccolte dal centro studi Circle (si veda lo studio completo qui: (http://www.civicyouth. org/PopUps/PR_08_Super%20Tuesday.pdf) vanno tutte nella medesima direzione: quest’anno i giovani sono più mobilitati del solito ma restano comunque una componente minoritaria dell’elettorato: fra il 7% e il 14% della Virginia, la stessa cifra nel Maryland, il 26% del Wisconsin. Molto se la competizione avviene in ristrette assemblee di simpatizzanti con qualche migliaio di persone, poco se si deve vincere un’elezione a cui parteciperanno quasi 150 milioni di americani.
Un altro studio, questo del Pew Research Center (http://pewresearch.org/pubs/730/young-voters) dà cifre leggermente superiori: in Georgia, New Hampshire e Iowa i giovani sarebbero stati fra il 18 e il 22% di chi ha votato. Anche in questo caso, si tratta di cifre importanti per i democratici (che sembrano raccogliere quest’anno il 70% del consenso giovanile) ma non decisive: la “generazione Obama” (i 18-24 anni) conta circa 25 milioni di cittadini. Di questi hanno votato nel 2004 11,6 milioni. Anche supponendo che il turn-over aumenti di un quarto, che sarebbe un risultato straordinario, si può sperare al massimo in 14,5 milioni di voti da ripartire fra i due partiti. Ora, gli ultrasessantacinquenni che hanno votato nel 2004 erano 24 milioni e quest’anno, per ragioni puramente demografiche, saranno circa 27 milioni. Gli anziani troveranno sulla scheda il nome di un loro coetaneo, John McCain, con una reputazione ben meritata di eroe di guerra: se in questa classe d’età i consensi si divideranno 56 a 44 per i repubblicani, come avviene di solito, questo significa circa 3 milioni di voti di vantaggio per McCain. Il divario a favore dei democratici nelle classi di età più giovani verrà molto ridotto.
Occorre inoltre vedere come si ripartiranno geograficamente questi voti: come ben si sa, negli Stati Uniti voto popolare e voto dei “grandi elettori” nominati stato per stato possono non coincidere, come avvenne nel 2000 quando Al Gore ebbe una maggioranza di voti popolari ma fu sconfitto ugualmente. Quest’anno, i voti degli universitari del Connecticut e del Massachusetts non serviranno, perché quegli stati comunque sono a maggioranza democratica e, ai fini dell’elezione del presidente, ottenere il 51% o l’80% non fa differenza. Ciò di cui hanno bisogno i democratici sono i voti dei ventenni dell’Ohio, del Wisconsin, del New Mexico, del Nevada e della Florida, tutti stati dove lo spostamento di poche migliaia o decine di migliaia di suffragi può decidere del risultato per tutta la nazione. Sfortunatamente, New Mexico, Nevada e Florida sono tre stati con una forte popolazione di pensionati, attirati laggiù dal clima mite e dai prezzi bassi: una composizione demografica che favorisce i repubblicani (che infatti hanno vinto in tutti e tre sia nel 2000 che nel 2004, con l’eccezione del New Mexico nel 2000). I democratici, se non commetteranno errori in autunno (come spesso accade) hanno dalla loro parte una partecipazione popolare e un entusiasmo che mancano ai repubblicani: in Virginia, martedì 12 febbraio, Obama ha raccolto da solo 619.000 voti, parecchi di più di quelli ottenuti da McCain, Huckabee e Ron Paul insieme. La settimana successiva ha vinto in Wisconsin e alle Hawaii.
Dopo le ultime vittorie nelle primarie, la candidatura Obama sembra inarrestabile ma occorre capire come verrà recepita dall’elettorato operaio e dalle donne a basso reddito. Nel 2004, per esempio, la percentuale di famiglie americane con un reddito annuo inferiore ai 50.000 dollari era del 38%. Tra i votanti, invece, chi era in questa fascia di reddito era solo il 34%: la sensazione, ancora una volta, di non trovare una rappresentanza politica adeguata sottrae preziosi consensi al partito democratico. Come si diceva già la settimana scorsa, una larga maggioranza dei democratici a basso reddito sosteneva Hillary e non è sicuro che siano disposti a dare il loro voto a Obama (visto come un candidato “alieno” nella corsa per la presidenza vera e propria). Per il senatore dell’Illinois, ormai passato in testa alle preferenze anche nei sondaggi nazionali (vedi: http://www. rasmussenreports.com/public_content/politics/election_20082/2008_presidential_election/daily_presidential_tracking_poll) c’è però motivo di soddisfazione negli exit polls condotti ai seggi in Virginia: tra gli elettori democratici che guadagnano meno di 50.000 dollari l’anno, per la prima volta è Obama ad ottenere i maggiori consensi: 60% contro il 38% a Hillary. Anche tra gli anziani, per la prima volta, il nuovo front-runner è in testa: 54% contro 46% alla Clinton.
E gli istituti di sondaggio, facendo i calcoli sulla ripartizione geografica dei voti ( di nuovo Rasmussen, qui:http://www.rasmussenreports.com/public_content/politics/election_20082/2008_presidential_election/election_2008_electoral_college_update) danno vincitore in novembre, il candidato democratico, chiunque sia.
(Fabrizio Tonello)