Del buon uso
del popolo nigerino

... Siamo, senza dubbio, un paese sicuro, un paese d’avvenire con prospettive certe di crescita, un clima propizio per gli affari e un notevole impegno a lottare contro la corruzione, i traffici illeciti e il lavaggio di denaro sporco... potrete essere sicuri di trovare in noi dei partner affidabili, impegnati e aperti, un popolo disciplinato e lavoratore, impegnato a mettere solide basi per uno sviluppo economico sostenibile. La nostra ambizione è quella di far rinascere il Niger...

è la conclusione del discorso che il presidente del Niger, Issoufou Mahamadou, ha pronunciato al Forum Internazionale di Londra per gli investimenti in Niger il 14 giugno scorso. Appena due giorni prima aveva incontrato il nuovo presidente della Francia, François Hollande. Quest’ultimo aveva promesso che i lavori di sfruttamento dell’uranio nel nuovo sito in Niger sarebbero stati accelerati. Questo nuovo cantiere farà del Niger uno dei principali paesi di esportazione del minerale di uranio al mondo. La compagnia francese Areva, statale, ringrazia.

Anche i politici ringraziano per la nuova manna. Peccato nessuno parli delle condizioni di lavoro degli operai nel nuovo cantiere, fino a 12 ore al giorno, e di un recente sciopero di denuncia. Peccato pochi denuncino i danni, praticamente irreversibili, sulle persone, la terra e l’acqua in tutta la zona, e l’espulsione dei Tuareg.
La militarizzazione dell’area non è casuale e non è giustificata solo con la lotta al terrorismo internazionale. Essa è sostanzialmente funzionale agli interessi di Areva e delle ditte ad essa collegate. Qualche settimana fa questa impresa è stata condannata a risarcire la famiglia di un impiegato (francese) che, esposto senza le dovute precauzioni alle radiazioni di uranio, è deceduto a causa di un tumore.

Le velleità di avere riparazioni analoghe per le decine di persone (nigerine) che hanno subìto la stessa sorte non hanno superato la cronaca giornalistica. Forse anche questo ha fatto parte dell’accordo tra i due presidenti per sveltire i tempi di finitura del cantiere di Imouraren in questione. Il neo-colonialismo continua e prospera con la benedizione delle élite locali che sguazzano nei milioni che vengono loro elargiti. Il popolo è ‘disciplinato e (soprattutto) lavoratore’, per gli interessi della Francia e dell’Occidente.

Anche le spese militari, con buona pace della carestia in atto nel paese, delle scuole inesistenti, della sanità soffocata dai debiti e dall’incuria, sono state recentemente aumentate. L’Assemblea Nazionale del Niger ha rettificato verso l’alto la spesa destinata alla difesa per l’anno in corso. Essa passa a 2,47 milardi di dollari, con un aumento di 84 milioni di dollari. Con buona pace e tranquillità di tutti, visto che al parlamento il potere gode della maggioranza assoluta e il popolo appare lontano. Sullo sfondo l’arrivo di una cinquantina di esperti militari dell’Occidente completano il quadro o quasi. Infatti sembra che gli Stati Uniti abbiano basi aeree militari occulte in grado di monitorare i movimenti dei gruppi terroristici che operano nel Sahel. Il deserto è diventato, ormai da tempo, una imponente autostrada per armi, droga, traffici umani e soprattutto lucrativi affari per chi può permettersi di farli, politici compresi.

Sono invece i caschi blu nigerini a morire. Sono le 18 ora locale di venerdì 15 giugno quando i corpi dei sette militari arrivano all’aeroporto di Niamey. Sono stati uccisi in un’imboscata al confine tra Liberia e Costa d’Avorio il passato 8 giugno. Sette bare che tornano alla polvere dalla quale erano venute.
Allo stesso tempo l’Unione europea contribuisce alle spese generali del paese con una somma di 22 milioni di euro e altri 10 milioni come contributo per la crisi alimentare. Naturalmente l’Unione europea accorda un’importanza particolare ai settori sociali, all’educazione e alla salute.

I buoni allievi, si sa, vanno premiati

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Il tempo dei poveri

Si chiama come il presidente del Niger. Mahamadou è uscito ieri dalla Casa di Arresto di Niamey. Ha fatto un anno in carcere e molti di più tra Liberia, Burkina Faso, Libia e Niger. Era partito per giocare a calcio e poi la vita l’ha preso come riserva. In panchina c’è rimasto un anno esatto. Entrato in prigione il 27 giugno 2011 è tornato in campo il 27 giugno 2012. E ora aspetta di curarsi, di mangiare, di vestirsi per poi ricominciare a giocare nel ruolo che ancora non sa. Non vuole tornare a casa subito perché suo padre è già morto e di sua madre non ha più notizie. Lei non saprà mai che Mahamadou è tra i sopravvissuti della guerra in Libia e della guerra in carcere. Lo stato infatti non può permettersi di fornire che qualche centesimo per il menu del giorno dei detenuti.

Il tempo dei poveri non importa a nessuno. Loro possono aspettare ore e giorni e mesi e un anno prima di uscire dal carcere. Le tre famiglie di liberiani espulse dall’Algeria partiranno solo domani dopo aver atteso un mese esatto i biglietti dell’aereo dell’Oim, l’ufficio delle migrazioni internazionali che aiuta i ritorni in patria di coloro che hanno rischiato l’altro mondo possibile. Erano stanchi e i tre bimbi giocavano ad ammalarsi e a nascondino con la storia di un paese che non hanno ancora visto. Sono nati in mezzo al viaggio chi da una parte e chi dall’altra. Tra una migrazione e l’altra. Tra un tempo e l’altro. Tra un deserto e l’altro. Tra l’oceano d’acqua e quello di sabbia. Hanno aspettato anni prima di decidere di tornare.

Mahamadou è nato in un campo profughi al confine tra la Guinea e la Liberia. Dopo la morte del padre si era stancato di attendere. Da buon giocatore aspettava l’occasione buona per segnare il suo cammino nella sabbia. Era a Tripoli e avrebbe voluto andare in Europa. La guerra lo marcava senza fretta e i restanti mesi sono trascorsi aspettando l’occasione per tornare. Dopo tre giorni passati a Niamey è stato arrestato perché senza saperlo dormiva con un ricercato dalla giustizia. Non ha mai capito per cosa era stato accusato. E intanto il tempo era passato. Chiedeva qualche vestito e una visita medica per ricominciare a vivere.

I poveri aspettano il loro turno. Si alzano presto per avere un numero da presentare allo sportello.I poveri aspettano i taxi che nelle ore in cui servono arrivano sempre tardi. I poveri possono aspettare. Il loro tempo non vale quanto quello dei potenti e dei signori. Muoiono quando non possono farne a meno e spesso senza farlo sapere. Il tempo dei poveri si confonde con quello di domani.I poveri invecchiano dall’abitudine di essere dimenticati. Le ore dei poveri sono senza contratto e pagate il giorno seguente. I poveri masticano lentamente l’eternità.

Avevano tanti bagagli da portare a casa e allora hanno chiesto una bilancia per pesare le borse. Partono domattina per Monrovia, che i bimbi non hanno mai visto prima e i grandi non ricordano com’era. Uno dei bimbi si chiama Chris e la bimba Elisabeth. Il terzo si chiama Saviour ed era uscito con la mamma per gli acquisti dell’ultima cena a Niamey. La Liberia forse troverà un salvatore: Saviour lo hanno chiamato. Hanno aspettato per anni e un mese questo giorno. Non potevano viaggiare senza i documenti e senza i certificati di nascita dei figli. Nati in viaggio da un mare all’altro. Uno d’acqua e l’altro di sabbia. E in mezzo i sentieri del tempo che insegue chi non lo cerca.

Bobby ha scelto di vivere sulla strada e aspetta l’occasione per andare in America. 747 è il numero che lo accompagna da quando era bambino sulle strade di Monrovia. Poi sono arrivati gli altri e allora ha scelto altre strade. Samuel Becket aspetta di iniziare un call center e la moglie di Henry vorrebbe mettersi in proprio come parrucchiera. Collins è in attesa di un posto di lavoro da quasi un anno. Ha già fatto le foto tessera che nessuno prenderà in considerazione. Fanny ha 32 anni e da Freetown in Sierra Leone è finita a Tripoli in un ristorante ormai chiuso dalle rovine.
Dice che aspetta che il suo uomo la raggiunga perché è tempo di tornare in Liberia.

Mauro Armanino, Niamey