Alberto Asor Rosa, docente di Letteratura Italiana all’Università “La Sapienza” di Roma ed a cui si devono alcuni testi fondamentali di critica letteraria, è da molto tempo anche uno degli autori più presenti nel dibattito della sinistra italiana. Ha recentemente pubblicato “Fuori dall’Occidente. Ragionamento sull’Apocalissi” (Einaudi editore).

Nel suo libro lei sembra quasi sostenere che siamo alla “fine della storia”, per lo meno della storia intesa come storia dei conflitti fra realtà ed ideologie contrapposte, come erano comunismo e capitalismo. Eppure proprio la fine del comunismo ha dato il via all’esplosione dei nazionalismi, al ritorno, anche violento, alle radici. In questo lei vede solo una convulsione finale, un fatto momentaneo che non mette in forse l’espansione mondiale dell’Occidente, o in questa esplosione può esserci invece un tentativo di non omologarsi alla mondializzazione dell’uomo occidentale?

Una prima precisazione: il tema della fine della storia è totalmente estraneo al discorso che faccio ed è anche un tema che trovo ridicolo. Evidentemente ci sono tante “fini” della storia quante sono le grandi epoche in cui la storia umana si è distinta, ma ad ogni fine è seguito un principio. Quello che ora possiamo dire è che si è chiusa una grande epoca della storia umana e che ne è cominciata un’altra. Un’epoca che è cominciata sotto il segno della disgregazione, del disfacimento. Io sono portato a pensare che i fenomeni a cui stiamo facendo riferimento, cioè i conflitti interetnici, i nazionalismi violenti, non siano una risposta all’occidentalizzazione del mondo, quanto piuttosto una conseguenza dell’occidentalizzazione stessa. E questo perché mi pare che la loro genesi si possa attribuire alla disgregazione di quell’impero socialista-sovietico che in qualche modo, del tutto negativamente, aveva tenuto in piedi un’alternativa di sistema all’occidentalizzazione del mondo. Nel momento in cui questa alternativa di sistema crolla ad intervenire è la disgregazione e la dissoluzione pura e semplice, cioè senza nessun segno di positiva riconquista dell’identità. In un certo senso si torna indietro, a prima che i grandi imperi si costituissero.
Ma il comunismo, che lei vede come alternativa di sistema al capitalismo occidentale, era, sia teoricamente che nella sua azione politica quotidiana, una lotta all’Occidente in nome dei valori fondanti dell’Occidente stesso. E allora la fine di quell’esperienza non è forse la fine di un abbaglio e quindi, almeno per certi versi, non può essere l’”apertura” reale all’Occidente?
Esattamente. Le nuove realtà nazionali, nate dal crollo del sistema socialista sovietico, sono ben lontane dal desiderare di imboccare una strada diversa tanto dal sistema socialista che dal sistema capitalista. Sono in una lotta atroce tra di loro perché fanno di principi elementari, come la nazione, la razza o la lingua, degli strumenti di ricompattamento di identità che non c’erano prima del socialismo, ed in tutti i casi non c’erano da sempre, ma sono tutte attratte verso il polo di identificazione rappresentato dall’occidente capitalistico. La Croazia, la Serbia, la Bosnia non si muovono alla ricerca di un‘autonoma identità culturale, politica ed economica. Sono fra di loro in conflitto, ma non di meno sono concordi nel guardare all’Occidente come al referente da raggiungere il più presto possibile. Altrettanto vale per la Cecoslovacchia, l’Ungheria, la Polonia, la Russia…
Le sembra che questo valga anche per i rinascenti sciovinismi e nazionalismi dell’Europa occidentale?
Qui il discorso è diverso. Lo sciovinismo occidentale, il razzismo rinascente, è una forma estrema di ricerca dell’identità nazionale dentro il grande corpo dell’Occidente. I naziskin, nella brutalità delle loro espressioni e delle loro manifestazioni, fanno riferimento al principio nazionale tedesco, all’identità nazionale e razziale della Germania. Il loro è un percorso tipico della cultura occidentale.
Ma nella cultura occidentale c’è anche l’opposto; da sempre si postula la relatività della radice nazionale e culturale. Pensiamo al concetto di “cittadino”, che, di fatto, altro non è che un individuo astratto. E non è in questo sradicamento il segno più vero ed attuale dell’Occidente?
Attualmente, la ricerca delle radici è certamente la pulsione più visibile, non la più generalizzata. Ma, all’estremo opposto di questa ricerca delle radici, non c’è più il culto dell’individuo astratto, d ...[continua]

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