Elena Del Grosso è genetista dell'Università  di Bologna. Anna Garbesi chimica del Cnr di Bologna.

Potete spiegare questo “progetto genoma”?

Elena D.: Prima di dire che cos’è il progetto, è meglio spendere due parole per definire il termine genoma. Con questo termine si intende il corredo genetico di un organismo, comprendente le unità informazionali - i geni-, le porzioni che controllano la loro espressione, le porzioni che consentono la loro trasmissione alle generazioni successive. Tutto questo costituisce il DNA. Quantunque esso si trovi nel nucleo della cellula, deve la sua attività alle relazioni che si stabiliscono con l’insieme dei componenti cellulari, i quali, a loro volta, dipendono dal tipo di cellula e dal momento dello sviluppo. Quindi ciascun individuo è il risultato di una storia di relazioni che si stabiliscono tra il suo genoma e il suo ambiente, nel senso più ampio del termine. Invece il progetto genoma umano prevede di individuare, isolare, analizzare i geni umani come se fossero strutture isolate, la cui funzione è indipendente dal contesto. Oltre questa, la critica che più comunemente viene fatta a questo progetto anche da parte di scienziati quali Lewontin, è che esso si caratterizza prevalentemente non per il suo aspetto scientifico, ma per quello economico industriale, che coinvolge, insieme agli “scienziati”, le multinazionali della chimica, delle biotecnologie e dell’informatica.
Perché è stata presa questa molecola come base di tutto?
Elena D.: La storia è lunga e complessa, ma semplificando molto penso si possa partire dalla scoperta della struttura a doppia elica del DNA e del codice genetico, cioè delle regole di corrispondenza tra geni e proteine, entrambe avvenute negli anni ’50. Due scoperte che sono insieme tappe importantissime di un lungo cammino e la conseguenza di una scelta determinante fatta in precedenza.
Alla fine del secolo scorso bisognava dare una spiegazione delle maggiori teorie evoluzionistiche che, da una parte, desse conto dell’invarianza, ossia della capacità degli organismi viventi di trasmettere immutati i loro caratteri, dall’altra parte, della loro contemporanea grande variabilità e capacità di mutare ed evolvere. Osservando gli organismi di una popolazione, ad esempio quella umana, vediamo che alcune caratteristiche, come il colore degli occhi, si presentano in maniera discontinua e sono evidenziabili come grosse differenze di tipo qualitativo, mentre altre, ad esempio l’altezza, si presentano in maniera continua e sono evidenziabili come piccole variazioni di tipo quantitativo. Con la riscoperta delle leggi di Mendel si scelsero praticamente quelle caratteristiche che per facilità di computo, di analisi strumentale, di isolabilità, erano più idonee a essere identificate. Attraverso una serie di semplificazioni la genetica ha messo da parte progressivamente i fattori di variabilità e si è concentrata su quelli di stabilità e sulla ereditarietà, arrivando a una relazione lineare di causa-effetto e a una normalizzazione per cui tutto ciò che si discosta dalla norma diventa eccezione, difetto genetico, mutazione. In questo percorso è stato determinante l’ingresso nella biologia, a partire dal secondo dopoguerra, di un folto gruppo di fisici, profondamente influenzati dal libro Che cosa è la vita? del loro collega Schroedinger. In esso si ipotizzava che l’ereditarietà si basasse sull’esistenza di un “cristallo aperiodico” composto dalla successione di poche unità semplici. La scoperta della doppia elica del DNA, questa lunghissima successione di quattro unità semplici su cui si basa la continuità nella trasmissione dei caratteri ereditari, ha concentrato ulteriormente attorno a essa l’attenzione.
Anna G.: L’entrata di molti fisici che venivano dalla fisica nucleare, abituati alla semplificazione estrema, ha ovviamente anche comportato inconsciamente l’illusione che tutto, alla fin fine, pur nella complessità dell’equazione, fosse spiegabile con le proprietà prime dei costituenti del nucleo. Cioè che tutto si spiegasse con le leggi base della fisica. Ciò che era parso ragionevole per la fisica si è creduto che potesse trovare lo stesso tipo di ragionevolezza e di semplificazione anche nella biologia, per cui tutto si poteva ridurre a una sorta di principio primo esplicatore, la causa, il primo motore immobile.
Elena D.: Invece il meccanicismo che vale per la fisica, non vale per un organismo vivente, che è la totalità, l’insieme: esist ...[continua]

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