Luigi Manconi, sociologo, senatore verde è autore di Solidarietà, egoismo e, con Laura Balbo, de I razzismi possibili e I razzismi reali. Ha curato Legalizzare la droga. Una ragionevole proposta di sperimentazione.

Si ha l’impressione di avere un ministro della Giustizia più garantista della gente, di noi stessi. E’ stato giusto opporsi al decreto Biondi?
Quel decreto, c’è poco da fare, era molto brutto. Era difendibile solo l’ispirazione, ma se l’ispirazione la traduci in un decreto classista, dove a essere penalizzati sono i più deboli, per giunta autori dei reati meno gravi, allora non c’è nessun garantismo. Perché deve stare in carcere uno per scippo e non uno che ha dato una mazzetta di mezzo miliardo? I reati sarebbero stati classificati come più o meno gravi sulla base delle disponibilità economiche, della forza delle classi sociali, del potere dei ceti.
Anche nel momento in cui noi assumiamo, come io assumo, un punto di vista garantista (e tendenzialmente abolizionista nei confronti del carcere), e comunque liberale e libertario nei confronti della pena, il problema dell’equità tra reati diversi si pone in ogni caso. Dobbiamo, cioè, far riferimento a dei criteri condivisi per decidere che comunque un furto è meno grave di un omicidio, qualunque sia la temperie culturale e il momento politico. D’altra parte, sì, è sempre forte ormai la tendenza a essere subalterni all’attualità politica e ad accettare lesioni al diritto in ragione dell’emergenza del momento: si compila, così, una gerarchia dei reati, stilata in base agli umori dell’opinione pubblica e si violano le regole in nome di esigenze che, di volta in volta, sono l’ordine pubblico, un nemico particolarmente efferato, la ragion di stato. Ma questo è sostanzialismo giuridico. Ed è una presenza inquietante nella storia italiana, che non è appannaggio solo della destra o solo della sinistra, ma circola in tutti gli schieramenti politici e culturali.
Non è quello che ritroviamo sia con il decreto Biondi e con le proposte del pool milanese di Mani Pulite? L’emergenza come vizio di fondo del problema italiano della giustizia?
Alla successione di emergenze non c’è mai fine e ogni emergenza giustifica una forzatura più o meno brutale nei confronti del sistema delle regole. Il disegno di legge del pool Mani Pulite va decisamente in questa direzione. Ma più che di una cultura propria della magistratura italiana parlerei di un senso comune che si intreccia con una cultura giuridica consolidata. Il senso comune è in generale insofferente, se non ostile, alle regole, che scambia per formalismo astratto; la cultura giuridica italiana è spesso ideologicamente sostanzialista, cioè trasforma quell’umore diffuso in un’ideologia, poi in una prassi giudiziaria, infine in legislazione e diritto, scarsamente preoccupati dei diritti individuali e delle garanzie della persona.
Tutto ciò ha radici antiche, ma si è evidenziato intorno alla metà degli anni ’70, quando, col terrorismo, il senso comune, la legislazione e la giurisprudenza assumono questa idea del nemico principale, che determina l’accelerazione di alcuni meccanismi, la forzatura di alcune regole e la violazione di altre. La storia italiana è stata funestata negli ultimi quindici anni da tre grandi emergenze: terrorismo, mafia e corruzione politica e a ognuna di queste ha corrisposto uno strappo nelle regole del diritto. Ora, questo strappo è sempre passato attraverso la successione di cui ti dicevo: ha sempre avuto bisogno dell’inidividuazione non di un reato, non di un reo, ma di un nemico.
Si è verificato uno spostamento sul terreno semantico concettuale della politica.
Sì, c’è stata la trasformazione della fattispecie penale in discorso ideologico e la trasformazione dello stesso operatore di giustizia in combattente e della sua attività giudiziaria in “lotta”: in una dimensione agonistico-morale, dove il diritto subiva forzature. Ma bisogna essere onesti: l’Italia ha vissuto davvero fasi eccezionali; questa successione di emergenze non avveniva dentro una normale fisiologia di rapporti sociali, ma dentro un quadro frequentemente alterato. Una parte del garantismo italiano, moderato e di destra, o radicale, interpreta il protagonismo della magistratura o come l’espressione del partito dei giudici o come la manifestazione del comunismo nelle procure o, ancora, come l’esito di un complotto anti-istituzionale. Io non la vedo assolutamente così, e se alcuni giudici hanno sicuramente ...[continua]

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