Il libro di cui si parla nell’intervista è Il fuggiasco, edizioni E/O. In esso Massimo Carlotto racconta soprattutto il periodo e i luoghi della sua latitanza.

Partiamo dalla fine di questa storia che è stata lieta ma il cui epilogo stava per essere tragico. Nel libro racconti di come ormai tutto era pronto per il suicidio.
Un atto di guerra. L’ho vissuto così, l’ho preparato per bene, non è stato facile, però alla fine tutto ormai era pronto. Non ero affatto contento, ma la prospettiva di farmi un altro giorno di carcere, di tornare in carcere e legittimare la sentenza era proprio fuori da qualsiasi discussione, volevo essere intransigente fino all’ultimo. E’ stata una delle tante passeggiate nella follia, però ero costretto a farla e l’ho fatta. Poi anche lì si è innescato il meccanismo della stessa professionalità che devi avere nella latitanza: organizzare la cosa in maniera scientifica, perché guai se fallisci; farlo combaciare coi tempi della giustizia; preoccuparsi di come l’evento verrà scoperto, che sia pronto un documento, la scelta del luogo. Avevo organizzato tutto per concedermi un mese di tempo da dedicare alla mia vita. E quando tutto era pronto ho preso un aereo per Cagliari, portando con me i miei film, i miei libri, c’erano ancora dei libri che volevo leggere, e lì, quando mancavano 34 giorni al giorno in cui sarei dovuto rientrare in carcere, è arrivata la notizia della grazia. Era poi un periodo in cui stavo sempre più male fisicamente, prendevo una quantità impressionante di medicine, i medici mi avevano detto che ero in condizioni disperate e che poteva capitarmi di avere un ictus. Così avevo paura di morire per non potermi suicidare, che morire non avesse più significato. E pensavo anche che in caso di ictus sarei stato costretto comunque a ritornare dinnanzi a un giudice. Allora andai da un amico galeotto per dirgli: "guarda, in tribunale, comunque io non ci voglio più mettere piede; nel caso, potrai aiutarmi...?".
Era una dimensione della follia che però dentro alla mia storia aveva una sua logica. Che altro mi rimaneva da fare per sancire comunque la mia innocenza, la mia diversità dal ruolo che mi avevano imposto? Tra me e la giustizia si era innescato un meccanismo perverso per cui vinceva sempre chi rilanciava più in alto la posta.
Quando alla fine sono stato condannato da una Corte, che era l’ultima, dopo la quale non mi restavano altre possibilità giuridiche perché avevo fatto tutti i processi possibili e immaginabili, compresa la Corte Costituzionale, alla fine l’unica cosa che mi permetteva di rilanciare la posta, di ribadire la mia innocenza al di là di tutto e distinguere tra giustizia e arbitrio, verità e menzogna, era mettere in gioco la mia vita. Né fuga né galera. Altrimenti essermi battuto per tutti questi anni non avrebbe avuto più alcun senso.
Mi sarei fermato solo di fronte alla grazia, per il significato particolare che avrebbe assunto all’interno di una grande mobilitazione, per il significato, nel mio caso, dichiaratamente correttivo, perché la magistratura non la voleva assolutamente, avevano detto chiaramente di no. Ma se non veniva fuori... Ero ormai al fondo dell’imbuto, fin dall’inizio della storia, via via, la mia posizione era diventata sempre più stretta.
Una storia che è durata 18 anni...
Ho 38 anni. 18 anni di processo sono metà della vita...
La mia esistenza è stata come mancata, la mia formazione come persona è avvenuta in maniera abbastanza strana, per la solidarietà, per quello che ho fatto all’estero, per le persone che ho conosciuto, ma comunque sempre segnata dal processo, da un processo interminabile. Sono finito in galera che ero un ragazzino, avevo appena 19 anni, il viaggio in treno da Padova alla Gare de Lyon era il primo viaggio della mia vita e lo facevo da latitante, non sapevo nulla, ero il classico studente medio di Lotta Continua, nulla di più.
Nel libro racconti di questo mondo di esiliati in cui hai trovato tanti amici...
Mi sono sempre un po’ vergognato di essere arrivato in Francia gridando: "sono vittima di un errore giudiziario!". Il tempo di guardarmi intorno, di conoscere curdi, iraniani, cileni e mi sono subito zittito: il mio era un piccolo dramma in quel mare terribile che sono le dittature nel mondo. Ho imparato che c’era di peggio, c’erano gli orrori che hanno vissuto le comunità degli esuli nei loro paesi, in Sudamerica, nell’Iran di Khomeini, in Turchia... A quegli esuli che ho conosciuto in giro p ...[continua]

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