Augusto Illuminati insegna Storia della Filosofia Politica all’Università di Urbino. Recentemente ha pubblicato un libro su Hannah Arendt dal titolo Esercizi Politici per le edizioni Manifesto Libri.

Hannah Arendt non apprezza affatto la condizione dell’innocenza. Può spiegarcene la ragione?
“Io non voglio occuparmi di politica, non capisco perché noi ebrei siamo perseguitati”; “non capisco, io non mi occupo di politica, ci piacciono le stesse cose, vogliamo le stesse cose, perché siamo perseguitati?”. “Noi ammazziamo perché eseguiamo degli ordini, non abbiamo niente contro gli ebrei, però ci hanno ordinato di far certe cose e le facciamo”; “noi non ci occupiamo di politica, siamo innocenti, ci limitiamo ad eseguire ordini, siamo pagati per questo”.
In queste due professioni di innocenza, una della vittima e una del carnefice, in qualche modo speculari una all’altra perché accomunate dal rifiuto della politica, Hannah Arendt fonda la sua dura polemica contro quell’innocenza che normalmente, in ambito cristiano ma anche laico, viene considerata una virtù positiva. Se sul piano dei rapporti privati l’innocenza è sinonimo di schiettezza, genuinità e spontaneità, una volta portata in politica, in un ambito, cioè, che riguarda la vita pubblica, non solo diventa negativa perché significa non essere responsabili delle proprie azioni, non volersi sporcare le mani con la realtà, ma risulta addirittura pericolosa, perché rende esposti, senza alcuna protezione, agli attacchi della società esterna.
Ritenendosi innocente, non ci si protegge. L’innocenza, il protestare la propria innocenza, rifiutando di occuparsi di politica in un campo dove le decisioni sono politiche, predispone alla condizione potenziale della vittima e anche a quel vittimismo che altro non è se non un modo per cercare di sottrarsi al male senza combattere. Per Hannah Arendt, invece, dove c’è una discriminazione bisogna impugnare le armi e lottare. Per lei l’innocenza non paga, paga solo la rivolta, la resistenza, la disobbedienza civile. La vittima, infatti, dovrebbe dire: “io subisco un’ingiustizia, mi domando perché, trovo un perché e cerco di lottare contro le cause di questa ingiustizia”. Il carnefice dovrebbe dire: “invece di eseguire gli ordini, ci rifletto, non mi ritengo irresponsabile solo perché ho ricevuto un ordine; non è sufficiente che non ci metta alcun malanimo personale, voglio capire il perché di quest’ordine ed eventualmente ribellarmi e non fare il male”.
Il caso paradigmatico è quello di un intero popolo, quello ebraico, che proclamando la propria innocenza, protestando di non essersi mai invischiato nella politica, subisce la peggiore delle persecuzioni. Anche adattandosi alla società circostante, persino convertendosi al cattolicesimo e sposandosi con i gentili, gli ebrei continuano ad essere perseguitati e non capiscono il perché. “Se noi non abbiamo fatto niente di male come singoli, perché ci rimproverate qualcosa, perché ci credete qualcosa di diverso dagli altri singoli?”.
Nel libro su Rahel Varnhagen Hannah Arendt descrive il dramma di una donna ebrea che rifiuta di farsi carico della propria identità e della propria differenza, che ricerca l’integrazione nella società circostante accogliendone passivamente i valori e, così facendo, vive la propria innocenza come un incubo. Solo quando si farà carico responsabilmente della propria condizione di ebrea raggiungerà una certa pace con se stessa. Varnhagen, ad esempio, sogna durante la notte di gridare la propria innocenza, che dovrebbe essere un fatto positivo e invece lei l’avverte come una colpa profonda, svegliandosi angosciatissima. Arendt a questo proposito usa espressioni molto belle come: “l’innocenza è come uscire sotto il temporale senza ombrello”, oppure quando paragona il vivere la propria condizione a una continua emorragia, dove è palese che non si tratta soltanto di Varnhagen come ebrea, ma di Varnhagen come donna. E pur riguardando soltanto i problemi d’identità di un’ebrea in Germania agli inizi dell’Ottocento, il libro è stato interpretato da tutto il movimento femminista come una metafora delle caratteristiche della donna che, negando la propria identità, inutilmente cerca di emanciparsi e di integrarsi nei valori di una società maschilista.
Nel caso della Varnhagen innocenza significa anche pensare di farsi strada individualmente con i propri mezzi, di farsi apprezzare per le proprie caratteristiche, perché bella, perché colta, perc ...[continua]

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