David Bidussa vive a Milano e lavora alla Fondazione Feltrinelli; ha pubblicato, fra l’altro, Sionismo politico, Unicopli, 1993, e Mito del bravo italiano, Il saggiatore, 1994.

Rispetto al Kosovo, si è discusso molto se quello che stava succedendo avesse a che fare, in qualche modo, con Auschwitz e se Auschwitz potesse essere usato come metro di paragone, casomai per misurare le differenze. Le reazioni spesso sono state drasticamente negative, con il rischio di riconfermare, nei fatti, se non teoricamente, l’idea dell’unicità della Shoah e della sua incomparabilità...
Io parto dal presupposto che nel corso del Novecento non esistono storie parallele che non siano dialoganti fra di loro. Voglio dire molto semplicemente che ogni struttura di genocidio ha un suo iter processuale, legislativo, emotivo, culturale, ma che, vivendo in una società estremamente comunicante, i modelli culturali, mentali, giuridici sono interscambiabili. Nel Novecento, una volta che un fenomeno avviene, e diviene noto, entra a far parte del bagaglio culturale umano e non solo della storia di un settore di una popolazione, o di un periodo. E in questo caso ci entra sia nella versione della vittima che in quella del carnefice. Allora, secondo me, Auschwitz non solo è comparabile, ma è fondamentale che lo sia. Perché la non comparabilità produce sacralità, e la sacralità è un pessimo servizio reso alla storia perché vuol dire assolutizzare Auschwitz nella storia, dopodiché si può fare tutto: nulla sarà mai paragonabile con quello. Quindi la comparabilità è una grande arma di difesa, non è affatto la dissacrazione di un evento. Questo è il primo punto. Seconda osservazione: ad attivare una dinamica di uccisione di massa concorrono molte componenti non necessariamente successive, tutte agibili e agenti nello stesso momento, alcune con più centralità, altre con meno, però la gerarchia di quelle stesse componenti è molto dinamica. In una seconda fase quelle che erano centrali possono diventare secondarie. Ciò che, semmai, non può succedere è che degli elementi compaiano improvvisamente. Questo permette di dire che le dinamiche di sterminio di massa vanno analizzate per tutte le loro componenti e anche queste vanno comparate. Dopodiché, però, ne va comparato l’effetto, e il cumulo di effetto che queste componenti producono nel tempo. Il tempo è un fatto importante, essenziale per come si sviluppano le singole componenti culturali, giuridiche, emotive, anche psicologiche, ai fini della realizzabilità di quell’evento, e per gli strascichi successivi. Non è vero, infatti, che le dinamiche di genocidio terminano nel momento in cui il genocidio finisce fisicamente. Le dinamiche innescate continuano ad agire nella testa dei sopravvissuti di una parte e dell’altra, dei sopravvissuti dei carnefici e dei sopravvissuti delle vittime che ovviamente sono diversi e che continuano a guardarsi reciprocamente come dei sopravvissuti. Detto fra parentesi: oggi, secondo me, esiste un diffuso atteggiamento psicologico di tenerezza verso i sopravvissuti dei carnefici, in quanto vittime della censura della storia per i cinquant’anni successivi all’evento. Questo però produce un effetto di messa in mora di coloro che sono sopravvissuti in quanto vittime, perché appaiono come portatori di una perversa oppressione verso i sopravvissuti dell’altra parte. E’ il risultato della non elaborazione della storia europea, del suo non aver riflettuto su se stessa, cioè dell’aver pensato che il meccanismo sterminazionista fra gli anni Trenta e Quaranta fosse stato il prodotto di un solo contesto, di un solo meccanismo culturale con una sola simbologia.
Allora, se dovessi mettere in relazione tutto ciò che è avvenuto in Kosovo (e che, se vogliamo, ora continua ad avvenire con segno cambiato) rispetto a ciò che è avvenuto sessant’anni fa nel cuore dell’Europa, posso trovare dinamiche che sono diverse, e altre, invece, che sono identiche. Se esaminiamo i carnefici, la prima dinamica simile è il rapporto tra meccanismi della decisione, attuazione della decisione e struttura di esecuzione.
Allora, un primo dato essenziale presente in ogni genocidio è che, al contrario di ciò che noi siamo abituati a pensare al riguardo, il potere non ha mai lasciato niente di scritto. Secondo punto: in un genocidio si deve dare inumanità non già di chi compie lo sterminio, bensì di chi lo subisce. E per darsi inumanità di chi subisce lo sterminio ci sono due modi di raccontarsi la st ...[continua]

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