Natasa Kandic è responsabile del "Fond za humanitarno pravo" (Humanitarian Law Center). Il centro è stato fondato a Belgrado nel 1992 e conta oggi anche quattro uffici in Kosovo.

La nostra organizzazione, l’Humanitarian Law Center, è nata nel 1992, in seguito allo scoppio della guerra in Croazia. Il nostro compito è innanzitutto quello di investigare sui casi di violazione dei diritti umani. E devo dire che l’organizzazione è stata avviata fin dall’inizio in modo molto serio e professionale. Abbiamo quindi cominciato con i rifugiati serbi in fuga dalla Croazia, ma anche coi croati presenti qui in Serbia, in particolare in Vojvodina, che a quel tempo venivano minacciati da alcuni partiti politici, in particolare da quello di Seselj, che cercava di spaventarli al fine di far loro lasciare la Vojvodina, così da far posto ai serbi in arrivo dalla Croazia.
Noi abbiamo raccolto molte relazioni sulla situazione al tempo di quel conflitto, e abbiamo documentato molti casi di "crimini di guerra" in Croazia e in Bosnia, sempre sulla base di indagini accurate e testimonianze verificate. E’ stato anche grazie alla nostra documentazione che si è potuto creare il tribunale dell’Aja per la ex Yugoslavia nell’agosto nel 1994. Noi infatti siamo stati la prima organizzazione non governativa dell’ex Yugoslavia ad essere invitata all’Aja per discutere di una eventuale forma di collaborazione. Tuttora lavoriamo in stretta collaborazione con l’ufficio dell’accusa e l’intero tribunale. Per gli avvocati dell’Aja è fondamentale raccogliere informazioni adeguate sui conflitti in corso per decidere se aprire o casomai sospendere un’indagine.

Oltre alla condizione dei croati e musulmani qui in Serbia, noi abbiamo documentato molti casi di violazione dei diritti umani anche rispetto agli albanesi, in particolare dal 1992.
Nel 1997 avevamo anche aperto un ufficio a Pristina. In quel momento infatti ci trovavamo in una posizione privilegiata in Kosovo, nel senso che molti albanesi ci conoscevano e, benché serbi, avevamo conquistato la loro fiducia come organizzazione imparziale. Per questo avevo ritenuto importante che ci fosse una nostra presenza più concreta in Kosovo. Nel 1998 però tutto è cambiato. Le violazioni della polizia serba si sono intensificate, tanto che noi nel maggio del 1998 in seguito alle indagini svolte nei mesi precedenti, abbiamo deciso di rendere pubblici i risultati delle nostre inchieste in cui veniva riportato, sulla base di varie indicazioni, che un conflitto armato era in corso in Kosovo. A quel punto abbiamo invitato il governo serbo ad aumentare l’azione di protezione della parte di popolazione meno tutelata in questo conflitto. Naturalmente il governo yugoslavo non ha voluto sentire ragioni sul fatto che stava scoppiando un conflitto armato in Kosovo. Le spiegazioni ufficiali rimanevano che il governo stava legittimamente combattendo contro i terroristi in Kosovo. Tramite le nostre indagini, noi però avevamo avuto l’opportunità di verificare le informazioni pubblicate dalle fonti ufficiali in Serbia scoprendo così che, per l’ennesima volta, la maggioranza di queste informazioni non erano veritiere. Per esempio parlando con testimoni e vittime sul campo, siamo riusciti a controllare e scoprire che le notizie ufficiali sui terroristi albanesi uccisi non trovavano conferme. Nel senso che i racconti dei testimoni, regolarmente verificati incrociando i loro resoconti, portavano invece ad affermare che le vittime erano civili, o gente che era stata precedentemente arrestata, ma senza armi.
E così tutto lo scorso anno è stato molto duro e difficile perché le violenze contro i civili erano costantemente in aumento. E anche il permesso -"eccezionale" per il governo yugoslavo- all’Osce di entrare in Kosovo non aveva portato ad alcun miglioramento della situazione.
Gli albanesi del Kosovo avevano accolto con grande speranza la presenza di una qualche organizzazione internazionale che monitorasse la situazione, ma in realtà siamo stati tutti presto delusi perché non abbiamo visto alcun cambiamento rispetto alle azioni della polizia e dell’esercito yugoslavo: non erano state affatto sospese. Insomma, tutto è rimasto invariato fino all’intervento militare della Nato.

Francamente il periodo dell’intervento è stato molto duro. I primi giorni ho subito deciso di andare a Pristina per vedere cosa stava succedendo al nostro ufficio, alla gente impiegata.
Arrivare in Kosovo è stata veramente un’impresa. ...[continua]

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