Paolo Dusi, già Presidente della Corte d’Appello di Trieste, è componente del Consiglio Superiore della Magistratura.

Possiamo partire da un inquadramento generale del diritto di famiglia?
In Italia la riforma del diritto familiare risale al ’75, ma aveva visto già prima alcuni interventi notevoli, per esempio la legislazione sul divorzio del ’70.
L’istituto dell’adozione (allora detta “speciale”) risale al 1967 e rappresenta una sorta di rivoluzione copernicana, in quanto per la prima volta il minore diventa “soggetto” della vicenda e si afferma il valore della famiglia degli affetti rispetto alla famiglia basata sul vincolo di sangue. Ora, pur non essendo nato da un’iniziativa uniforme e, pur risentendone sotto alcuni profili (ad esempio la frantumazione della competenza tra vari giudici), il sistema della giustizia familiare ha tuttavia una sua coerenza e un suo rigore. Esso pone alla propria base la laicità della famiglia: lo Stato non propone un suo modello, ma dice ai coniugi: “comportatevi come volete, educate i figli come volete, basta che non avvengano pregiudizi nei loro confronti. In quel caso allora io Stato intervengo, ma fino a che le relazioni funzionano, non voglio sapere né indicare il segno sotto cui devono svilupparsi”. Non c’è un modello che lo Stato preordina e propone; c’è la ricerca della parità dei coniugi all’interno del matrimonio e c’è la tutela della figura più debole, che è appunto per antonomasia il minore.
Direi che questo sistema, nonostante l’inadeguatezza di qualche norma, gli errori dei giudici e la delicatezza delle situazioni in cui si è chiamati ad intervenire, ha funzionato.
Bisogna tenere presente che per il diritto è una novità entrare nei sentimenti, nelle relazioni affettive. Il diritto è molto legato al fatto, è abituato a guardare all’indietro, al momento in cui il gesto è stato compiuto. Qui si tratta di un diritto che prova a capire le pieghe dell’animo umano, il significato delle relazioni e il loro futuro; quindi è un ambito scivoloso, esposto a errori dovuti anche al paternalismo di alcuni giudici, o al loro “delirio di onnipotenza”. Quando valutiamo le novità introdotte, come l’affido congiunto o condiviso, oppure i tentativi che l’esperienza giudiziaria sta facendo rispetto alla tutela dei minori in difficoltà, dobbiamo tenere presente che è difficilissimo intervenire in queste situazioni.
Le difficoltà (e quindi le polemiche con conseguenti campagne di stampa) si sono accentrate in due istituti che sono fondamentali nelle relazioni familiari. Il primo è quello dell’affido dei figli in occasione delle separazioni e dei divorzi (c’è una norma che affronta in modo analogo la fine delle convivenze di fatto e quindi il destino dei bambini nati in quelle situazioni). Qui il legislatore è intervenuto introducendo, come modalità di separazione, l’affido condiviso dei figli minori.
Un altro punto drammatico è stato quello delle adozioni, tema che mantiene una forza dirompente. Quello che fa problema è la rescissione del vincolo di sangue in favore di un futuro fondato sul vincolo degli affetti. E’ un principio che a parole nessuno contesta: quando la Dal Canton, la proponente della legge del 1967, portò il suo disegno in Parlamento, furono tutti d’accordo. Nonostante questa adesione, restano tuttavia delle riserve intime a moltissimi livelli, che poi riemergono con forza quando la televisione inquadra il lettino rimasto deserto, con l’orsacchiotto del bambino allontanato dalla sua famiglia.
Possiamo parlare dell’affido condiviso?
Sono stato tra i fautori di questo cambiamento del modello che regge l’affido dei figli in occasione delle separazioni. Ma lo vedevo inevitabilmente collegato ad un intervento di servizi e di competenze che preparassero i coniugi a questo tipo di condivisione di responsabilità. Questo modello mi aveva coinvolto e del resto si era diffuso in molti Stati d’Europa già nel decennio 1980-1990: in Spagna nell’81, nel Regno Unito nel ’91, in Francia nel ’93, in Belgio nel ’95; in questi paesi era stato già abbandonato il modello dell’affido esclusivo.
Quando ero al Consiglio Superiore iniziai a interrogarmi con un gruppo di giudici minorili sul tipo di modello che la vecchia formula proponeva. Era il periodo in cui si parlava molto della “società senza padre” e dovunque si lamentava una crescente intolleranza a sottostare a delle regole, a dei limiti da parte dei bambini e dei ragazzi. Una delle ipotesi era appunto che ...[continua]

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