Lamberto Bertolè è il fondatore della cooperativa Arimo (www.arimo.org) che, a partire dal 2004, accoglie, in una cascina vicino a Pavia, un gruppo di ragazzi con provvedimento di affido civile o sottoposti a misure penali.

La vostra esperienza si fonda sull’idea che spesso il reato, se commesso da adolescenti, è una richiesta d’aiuto. Puoi spiegare?
Questa è una comunità dove vivono 10 ragazzi fra i 15 e i 20 anni che hanno in comune il fatto di doversi prendere una pausa, rispetto alla vita di prima. Calmarsi un attimo, come a volte diciamo presentando questo posto, allacciarsi le scarpe, bere un sorso d’acqua, per poi riprendere la corsa con più chances di prima. Questo perché hanno incrociato nel loro percorso la giustizia minorile, incappando in un incontro con il tribunale o in un provvedimento penale che li ha spinti a venir qua. Ci sono anche ragazzi che non hanno commesso reati, ma il punto fondamentale di questo progetto è l’idea che nessun ragazzo, a 16 anni, fa una scelta di tipo delinquenziale. Il reato è la massima delle trasgressioni, ma, come tutte le trasgressioni degli adolescenti, è un messaggio al mondo adulto. Quindi il lavoro che facciamo è cercare di capire che significato hanno queste trasgressioni e dare loro una risposta. Molto spesso ho visto che i ragazzi commettevano dei reati proprio perché vedevano che il mondo adulto non si faceva carico delle loro richieste. Il reato è quello che di colpo fa muovere tutti, di fronte a un reato tutto si fa più alla svelta. Purtroppo, il percorso penale è spesso il sostituto di un percorso sociale, di assistenza e di accompagnamento alla crescita che prima non c’è stato.
Com’è iniziato questo progetto?
Tutto è cominciato attraverso incontri con ragazzi sottoposti a provvedimenti disciplinari; mi hanno fatto capire che, di fronte a risposte diverse da quelle puramente sanzionatorie, potevano riattivare risorse e capacità e, in alcuni casi, sbloccare il loro destino e riuscire ad immaginare un futuro diverso. Viceversa i numeri dicono che la grande maggioranza dei ragazzi che commettono reati sono recidivi, quindi sarebbero condannati ad un destino già segnato.
Personalmente avevo lavorato in una comunità che accoglieva ospiti con esperienze molto diversificate di marginalità e di riscatto. A un certo punto avevo attivato una piccola scuola popolare sia per minori, sia per giovani adulti che non avevano la licenza media.
Dal ’98 al 2002 ho lavorato in questa comunità prima come volontario, poi come dipendente. Col tempo un gruppo di volontari ha sentito l’esigenza di costruire un nuovo progetto creando una struttura molto più piccola e con un target più specifico. All’inizio del 2002 è nata l’idea di aprire Arimo. Il nome deriva da una parola dialettale, “arimortis”, che usano i bambini; significa interrompere il gioco, cioè salvarsi perché non puoi essere colpito dall’avversario.
Mi sono preso sei mesi di riflessione per verificare la forza e la tenacia del desiderio di trasformare l’idea in un progetto. Poi ho ricontattato diverse persone che hanno cominciato a partecipare a incontri regolari in cui mettevamo a punto i diversi aspetti del progetto, l’individuazione di una casa, la ricerca di fondi, i rapporti con le istituzioni. All’inizio eravamo in dieci.
La prima cosa importante che ho imparato in quest’avventura è stata la necessità della mediazione con la realtà per far nascere qualcosa: abbiamo trovato questo posto abbandonato da anni (non era esattamente quello che cercavamo), era costosissimo, ma dopo mesi di trattativa siamo riusciti a dimezzare il prezzo; nel 2003 abbiamo cercato i primi fondi e donazioni per acquistarlo. Subito dopo sono incominciati i lavori di ristrutturazione: sotto la guida di volontari professionisti (architetto, decoratrice, paesaggista, giardiniere), parallelamente all’opera dell’impresa edile, si sono organizzati dei campi di lavoro in cui sono intervenuti oltre 300 volontari che si sono adoperati per ripulire, scrostare, demolire, ristrutturare infissi, tinteggiare.
Personalmente, nel 2003, lavoravo a metà tempo al progetto di Arimo; contemporaneamente ho fatto un’esperienza di un anno e mezzo al Centro di Giustizia Minorile: questo ha favorito il confronto quotidiano con gli operatori, gli assistenti sociali, i dirigenti del Centro, i formatori dell’Enaip, gli educatori del carcere.
Nel marzo del 2004 siamo riusciti ad aprire la comunità con i primi ragazzi, che sono stati coinvolti ...[continua]

Esegui il login per visualizzare il testo completo.

Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!