Alessandro Montebugnoli è presidente dell’associazione “Servizi Nuovi”. E’ autore di molti saggi di argomento economico-sociale. Per Ediesse edizioni ha pubblicato il volume Come complicare l’economia sociale. Per una nuova stagione del welfare, per Laterza, insieme a Claudia De Vincenti, L’economia delle relazioni.

Abbiamo già parlato con te, in una precedente intervista, di quello che tu consideri il punto centrale, fondamentale, di una buona politica di welfare, e più in generale, forse, di una buona politica democratica tout court: la possibilità, del tutto ignorata, di mobilitare l’enorme “deposito” di energia, di spirito di iniziativa, del cittadino. Nell’intervista precedente denunciavi il rischio che anche il cosiddetto terzo settore riproducesse lo stesso rapporto fra fornitore di servizi e “utente” che intrattiene lo Stato, un rapporto basato sulla passività pressoché totale del cittadino. Secondo te, se abbiamo capito bene, sarebbe molto importante “raccontare” le esperienze di welfare che abbiano però quel carattere innovativo...
Sì, mi interessano molto le esperienze di welfare che presentano motivi di novità dal punto di vista del rapporto che si istituisce tra sistemi professionali e mondi della vita quotidiana. In questo senso parlo di “nuove esperienze di welfare”. In realtà si potrebbe dire anche, forse più esattamente, nuove esperienze di wellbeing, perché “welfare” ormai non significa più benessere, ma “politiche di welfare”, cioè alcuni settori di intervento delle politiche pubbliche, e neanche tutti. Se tu dici “welfare” a che pensi? Alla sanità innanzitutto, ai servizi sociali, agli ammortizzatori sociali, ma già l’istruzione fai fatica a pensarla come welfare. Anche le politiche di risanamento, di riqualificazione urbana, che sono a tutti gli effetti politiche di welfare, non sono la prima cosa che ti viene in mente.
Questo approccio nuovo -la ricerca, cioè, di un diverso rapporto tra beni e servizi prodotti su base tecnico-professionale e diretto coinvolgimento delle persone a cui questi beni e servizi sono destinati; detto altrimenti, il fatto che i cittadini si approprino e gestiscano in modo attivo i beni e i servizi di cui sono destinatari- dovrebbe riguardare tutte le politiche pubbliche rivolte alle famiglie, ai cittadini, alle persone fisiche (non le politiche industriali) e non solo: può essere adottato anche per quanto riguarda processi di soddisfazione dei bisogni che si svolgono normalmente, tra virgolette, sul mercato.
Ecco perché parlo di buone pratiche innovative, perché spesso si rischia che, nel rapporto fra domanda e offerta di beni e servizi, la passività del cittadino non sia messa in discussione.
Ma queste buone pratiche andrebbero raccontate, perché spesso restano sconosciute. Molte di queste esperienze hanno un’origine anglosassone e, per la verità, molte esperienze di grande interesse avvengono nei paesi in via di sviluppo o di recente sviluppo. Penso al Brasile, all’India…
Ma tu la vedi una tendenza al rinnovamento nel senso che stai dicendo o no?
Non è che non ci sia, però si manifesta in modo frammentato, e soprattutto nell’ambito dei vari settori di intervento; fa fatica, invece, ad affermarsi come una strategia di carattere generale, che può essere perseguita come ipotesi di trasformazione. E non solo come ipotesi di trasformazione delle politiche di welfare in senso generale, ma anche come ipotesi di ricerca, come linea lungo la quale cercare un diverso equilibrio sociale, per usare un’espressione di Galbraith. Galbraith, parlando della società opulenta, diceva che c’era un problema di equilibrio sociale tra ricchezza privata e ricchezza pubblica, che siamo squilibrati dal lato della ricchezza privata.
Ecco, senza essere riusciti a risolvere quel problema lì, in cambio, però, ne abbiamo un altro: è squilibrato il rapporto tra i due versanti che dicevo prima, le attività organizzate su base di specializzazione funzionale e quelle di mondo vitale. Queste esperienze hanno bisogno di tante cose, ma, fondamentalmente, di tempo, un tema molto importante, ancorché praticamente scomparso dal dibattito.
In passato si parlava dei tempi di vita e di lavoro, con un’espressione che non userei mai, nel senso che è molto povera, e poi è proprio sbagliata, perché estromette il lavoro dalla vita in un modo abbastanza antipatico.
Comunque, ragionando in questo modo, si incontra anche questo tema del tempo, che riguarda l’equilibrio macroecono ...[continua]

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