Karl-Ludwig Schibel, sociologo, coordina dal 1989 a Città di Castello la realizzazione della "Fiera delle utopie concrete”. Dal 1992 è responsabile in Italia dell’"Alleanza per il clima delle città europee”, rete di enti locali e territoriali impegnati nella salvaguardia del clima. Ha partecipato come osservatore a molte delle conferenze annuali sul clima delle Nazioni Unite dalla COP 1 a Berlino alla COP15 a Copenhagen.

Sei appena tornato da Copenhagen, un incontro da molti considerato fallimentare o comunque deludente. Quali sono le tue valutazioni?
Il risultato di questa quindicesima conferenza delle parti è stato considerato universalmente al di sotto delle aspettative. In realtà sono stati il Comune di Copenhagen, il governo danese, lo stesso segretariato delle Nazioni Unite e perfino i movimenti sociali a presentare Copenhagen come l’appuntamento per salvare il mondo. La delusione nasce pertanto da aspettative che erano esagerate in partenza e che non avrebbero potuto trovare una risposta adeguata in questa occasione.
Dobbiamo ricordare che questo processo è partito nel ’92 a Rio de Janeiro, e dura ormai da quasi 18 anni, periodo in cui sono stati fatti diversi piccoli passi in avanti. Non c’era ragione per credere che a Copenhagen ci sarebbe stato il miracolo. Il miracolo, in realtà, è stata la convenzione quadro di Rio de Janeiro. All’epoca, nessuno si sarebbe aspettato che sarebbe uscito un documento così chiaro, così impegnativo, ancora oggi alla base di tutto questo processo.
Dal 1990 io lavoro per l’Alleanza per il clima delle città europee, un’iniziativa che ha visto la luce due anni prima di Rio de Janeiro e che vede il coinvolgimento di 1500 governi locali e regionali impegnati per la salvaguardia del clima. Questa fissazione sul livello internazionale, dove andrebbe concordata la salvezza dell’umanità, con l’immagine di questo messia che scende dall’Air Force One e che tutto dovrebbe risolvere, io francamente la trovo assurda.
I critici e i delusi dovrebbero chiedersi prima di tutto da dove hanno desunto questa speranza completamente irrealistica.
L’esito realistico era quello che abbiamo ottenuto: un accordo non vincolante, non obbligatorio, che ha posto come tetto massimo due gradi centigradi di riscaldamento. Quello che manca è di tradurre questa soglia in quantità di emissioni di gas serra, e di chiamare in causa i paesi Annex 1 (tutti i paesi industrializzati), ma anche i paesi non Annex 1 (qui parliamo soprattutto di Cina, India, Brasile, Sudafrica), inserendo dei primi punti fermi e sancendo l’impegno di arrivare a un trattato entro il 2010.
Ora che sia il 2010 o il 2011 non è così rilevante, fin quando non si crea un vuoto tra il protocollo di Kyoto e un accordo post-2012.
Purtroppo anche nel campo dei movimenti sociali e ambientalisti c’è questa spinta catastrofica: il problema dev’essere risolto quest’anno, se no finisce il mondo.
Ora, capisco che sul piano strategico è importante creare una tensione, un’attenzione, una drammaticità, però è una modalità che io considero pericolosa, perché - come nel caso di Copenhagen- se la discrepanza tra quello che tu dici che deve succedere e quello che poi succede è troppo grande, l’effetto è scoraggiante, deprimente.
Per concludere a Copenhagen è stato fatto un piccolo passo in avanti: per la prima volta si parla in un documento accettato da tutte le parti, Cina e Stati Uniti inclusi, della soglia dei due gradi, il che significa -e purtroppo l’accordo di Copenhagen non lo dice- ridurre le emissioni di gas serra del 50% a livello globale (che significa dell’80% per i paesi industrializzati) entro il 2050. Quindi, l’accordo di Copenhagen è forse più debole di quello che già si era detto al G8 a L’Aquila, però può vantare una base più larga, visto che ben 192 paesi l’hanno sottoscritto.
Una questione più di fondo. E’ difficile chiedere ai paesi emergenti, India, Cina, ecc. di ridurre l’inquinamento, e quindi, per esempio, di rallentare il processo di motorizzazione, quando noi ormai abbiamo due macchine per famiglia. In fondo siamo stati noi i primi a inquinare…
La prospettiva che hanno davanti i paesi industrializzati è quella di uscire dal fossile. Ci sono buone ragioni per farlo, a prescindere dai cambiamenti climatici. Il nuovo governo tedesco di centro destra-destra, cosiddetto giallo-nero, ha confermato l’impegno della Germania di ridurre del 40% le emissioni di CO2 entro il 2020. Unilateralmente, incondizionat ...[continua]

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