Giovanni Impastato, fratello di Peppino, coordina le attività di Casa Memoria; ha scritto Resistere a mafiopoli. La storia di mio fratello Peppino Impastato, Nuovi Equilibri 2009.

Mia madre è stata l’ultima persona che ha vissuto in questa casa, e quella che ci ha vissuto di più. Io a un certo punto mi sono sposato e Peppino già allora veniva periodicamente buttato fuori per i contrasti con il padre.
E’ stata lei a volere che, dopo la sua morte, questa casa fosse aperta al pubblico. Dopo la morte di Peppino, lei non chiuse le persiane, non si chiuse qui dentro a piangere il figlio, ma aprì questa casa a tutti: non soltanto ai giornalisti, ma a insegnanti, professori, artisti di ogni genere, immigrati, operai, uomini politici, magistrati…
Qui riceveva tantissime persone, quelle che venivano a chiedere di Peppino, che volevano ripercorrere un po’ quella storia, che volevano confortarla o trovare conforto. Con lei in vita era però rimasta una casa privata, anche se la porta era sempre aperta e lei era disponibilissima. Alcuni giorni prima di morire, aveva ricevuto un gruppo di scout.
Ci ha lasciato un testamento molto forte in cui diceva che questa casa non si doveva mai chiudere, doveva rimanere aperta a tutti, a tutte quelle persone appunto che volevano ricordare Peppino. Lei era convinta che la memoria fosse di fondamentale importanza. Aveva paura che un giorno non si parlasse più di Peppino. Ce lo ripeteva: "Quando io morirò dovete tenere sempre aperta questa casa”. E noi lo abbiamo fatto, abbiamo raccolto le sue volontà e l’abbiamo aperta a tutti.
Casa Memoria è nata così. E’ una casa normalissima, non è un museo, abbiamo preferito così.
Qui si respira un’atmosfera particolare, è un luogo simbolo, è la casa che si trova appunto a cento passi dal carnefice, dal mafioso, dal boss Gaetano Badalamenti, che è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Peppino. A differenza della nostra, quella casa ora è sempre chiusa. Se vuoi, anche questa è una vittoria.

La nostra era una famiglia mafiosa, mio zio Cesare Mansella era il capo della cupola in quel periodo, il capomafia indiscusso, ed era sposato con una sorella di mio padre. Ma anche mio padre era un mafioso. Non ha mai avuto un ruolo di primo piano all’interno dell’organizzazione, come Gaetano Badalamenti, come Cesare Mansella, però era inserito organicamente all’interno della cupola, all’interno dell’organizzazione vera e propria. E comunque era il cognato di un grande capo, di un grande boss che meritava rispetto, ecco.
Peppino con la sua scelta operò una grande rottura, non solo all’interno della società, dell’ambiente in cui viveva, ma soprattutto all’interno della propria famiglia.
Una cosa del genere non si era mai vista. Questo sta a dimostrare una cosa importantissima: che se si vuole si può rompere con la mafia anche se si vive in un contesto mafioso, anche se si vive all’interno di una famiglia mafiosa. Tutte queste fesserie sul dna, su quest’idea che se nasciamo mafiosi dobbiamo morire mafiosi, è tutto falso. Peppino lo ha dimostrato.
Così come ha dimostrato che la mafia non è solo ed esclusivamente un problema di repressione, di ordine pubblico in cui noi dobbiamo delegare tutto a polizia, carabinieri e magistrati. La mafia è un problema sociale, di più, è un problema culturale e a quel livello va affrontato se vogliamo risolverlo, perché la mafia si può sconfiggere, non è affatto vero che sono invincibili.
Falcone diceva: "Ogni storia, così come ha avuto un inizio, avrà una fine”.
La forza della mafia sta nel radicamento della cultura che la caratterizza.
Sradicare questa cultura significa lavorare, quotidianamente, nelle scuole, con i giovani, cercando di correggere i loro atteggiamenti, di sensibilizzarli, di innescare insomma una vera rivoluzione delle coscienze. Voglio essere sincero e parto da me stesso. Io spesse volte lo noto che quando lotto contro la mafia è come se lottassi contro me stesso (non mi vergogno a dirlo) come se lottassi contro un modo di agire, contro un modo di pensare, contro una forma mentis vera e propria. Allora, noi che cosa dobbiamo fare? Come prima cosa, così come ha fatto Peppino, dobbiamo operare una rottura dentro noi stessi.
Dicendo che bisogna partire da noi stessi, non voglio sostenere che siamo tutti mafiosi, o che io sono mafioso, ma che la cultura mafiosa è profondamente radicata dentro di noi, allora noi dobbiamo passare proprio per un trauma.
Purtroppo la mafia ...[continua]

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