Giovanna Vandoni è un fisico dello stato solido, Vittorio Parma è ingegnere aeronautico. Entrambi lavorano al Cern (Centro europeo di Ricerca Nucleare) a Ginevra e vivono in Francia da oltre vent’anni.

Da molti anni vivete all’estero. Come è maturata la scelta di lasciare il vostro Paese, l’Italia?
Vittorio. Mi sono laureato al politecnico di Milano nel 1991 e, dopo aver fatto il servizio militare, sono andato in Olanda a lavorare per l’Agenzia Spaziale Europea. Il contratto era a tempo determinato per cui poi sono rientrato in Italia e ho continuato a lavorare con il mio dipartimento in ingegneria aerospaziale. Nel 1994 al Cern cercavano ingegneri, così sono venuto qui a Ginevra e dal 1995 lavoro come ingegnere di progettazione. Mi sono occupato soprattutto di criostati per i magneti super-conduttori dell’anello principale dell’Lhc.
Giovanna. Mi sono laureata a Milano nell’89 e poi sono partita per la Svizzera, per fare un dottorato all’Epfl, la scuola politecnica federale di Losanna. L’idea era di fermarmi solo un po’, ma poi, anche per questioni di vita privata, concluso il dottorato, ho cercato lavoro qui. Nel 1995 sono così entrata al Cern, prima come post-doc e poi, dal 1997, come staff. Dal 2002 ho lavorato ad Atlas, che è uno dei grossi esperimenti legati all’Lhc, il Large Hadron Collider poi, a partire dal 2008, mi occupo del vuoto degli acceleratori iniettori di Lhc.
Nel vostro caso si può parlare di immigrati o di "cervelli in fuga”?
Vittorio. Per essere in fuga bisogna scappare da qualcosa. Io, poi, ho vissuto più all’estero che in Italia, per cui non mi considero nemmeno un emigrato. Direi che mi sento italiano anche se sono sposato con una francese e pratico poco l’italiano a casa.
Giovanna. Neanche io mi considero in fuga, anche se non credo che in Italia avrei avuto le stesse opportunità che ho trovato qui. Oggi ho il privilegio di fare lo scienziato a part-time, potendo anche seguire i miei figli. In Italia avrei avuto più difficoltà. Per cui forse posso dire di essere anche un po’ fuggita, soprattutto da una certa mentalità restrittiva e costrittiva che non vedeva di buon occhio la donna che lavora.
Sono anche un’immigrata, certo, anche se privilegiata: non sono partita con la valigia di cartone, ma perché volevo realizzarmi. Per un po’ ho tenuto una porta aperta con l’Italia, ho fatto pure dei concorsi per l’insegnamento nei licei, sempre con l’idea che "non si sa mai”.
Inutile dire che lasciare il mio paese è stata una scelta dolorosa, che però è stata ripagata dall’opportunità di inserirmi in un contesto professionale che mi gratifica molto. Questo lo devo proprio alla Francia e ai servizi che vengono offerti alle donne che lavorano: non è un caso che qui si facciano così tanti bambini!
E tuttavia devo aggiungere che, nonostante questo coronamento del mio doppio desiderio di fare la scienziata e anche la mamma, la mia vita rimane segnata da una ferita: quella della perdita dell’identità, del non sapere chi sono. Queste cose poi influiscono sui miei figli, perché se da un lato li posso educare come voglio, senza le pressioni che avrei subìto in Italia, sento anche l’urgenza di offrire loro un’ancora, delle radici.
Cosa significa per voi oggi "essere italiano”?
Giovanna. Un sacco di cose, a partire dalle più banali, come la cucina e lo sport. Poi c’è la lingua fino ad arrivare ai cosiddetti "valori” trasmessi dalla famiglia.
Vittorio. Ci sono cose che effettivamente sembrano essere "passate” attraverso i geni. La cultura alimentare è un esempio classico. Per quanto la mia famiglia non abbia mai dato grande importanza al cibo, io mi sento profondamente legato alle ricette italiane.
La questione comunque è complessa. A volte gli amici mi dicono: "Stai diventando francese”, al che io rispondo: "Forse sto diventando meno italiano”. Per me infatti ciò che mi sta accadendo è che sto assumendo uno sguardo molto più critico sull’Italia. Una percezione alimentata anche dal rapporto coi miei figli: loro frequentano la scuola francese e quindi stanno assimilando una cultura che non è la mia; ecco, proprio nel confronto con loro sono portato a riscoprire la mia cultura e a provare a trasmetterla loro. è con i figli che si riscopre di essere italiani.
Cosa cercate di trasmettere ai vostri figli del vostro essere italiani?
Vittorio. La prima cosa è la lingua. Con mia figlia maggiore, che ha dieci anni, oggi parliamo in italiano, ma non è stato così all’inizio, è stat ...[continua]

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