Elena Barzaghi, casalinga, vive a Milano, interviene come volontaria nel carcere di San Vittore.

Come sono arrivata a impegnarmi in carcere? Un amico faceva parte del gruppo degli ideatori di questo progetto, che coivolgeva associazioni, istituzioni, le realtà carcerarie, i detenuti, e mi ha detto: "Ci sono i gruppi di auto-aiuto, vuoi farne parte anche tu?". Così mi sono buttata. Facevo già la volontaria all’Asa, ho perso un fratello e avevo sentito il bisogno di darmi da fare. Ma forse, a essere sincera, è stato anche un modo di sentirmi realizzata. Quando stai sempre in casa con i figli, fra le pentole, avere l’opportunità di uscire, avere contatti, avere un ruolo, è una cosa che galvanizza. Poi io sono molto costante, se mi prendo un impegno lo porto fino in fondo; però, adesso mi accorgo di essermi infilata in un’esperienza molto difficile. Non ti dico le angosce e le paure di non essere all’altezza. Non ero stata preparata quasi per nulla, per cui entrare e passare attraverso quei cancelli è stato scioccante. Io poi, tramite l’Asa, avevo collaborato solo con persone omosessuali, che avevano fatto la scelta di reagire alla malattia, di attivarsi. Lì, con le persone tossicodipendenti, è tutto diverso. E’ un mondo che, a due anni di distanza, ancora non sono riuscita a capire perché è un mondo quasi sempre segnato da realtà familiari disastrose. Non so se tutta la popolazione carceraria sia così, ma quelli che vengono ai nostri incontri hanno fratelli o sorelle che si sono uccisi, la madre in carcere, il fratello nel raggio di sopra. Sono veramente situazioni tragiche. Queste persone, oltre a essere tossicodipendenti, hanno anche commesso dei reati e quindi hanno una situazione pesante alle spalle. Spesso, non hanno nessuna voglia di smettere di farsi. Sono persone che comunque non hanno nessuna intenzione di entrare in comunità, prefericono stare in carcere. Hanno il terrore di essere manipolati. Questa cosa mi ha stupito molto. Il più delle volte hanno cominciato, ma, dopo, sono scappati dalle comunità. Sono tutti in attesa di giudizio, soprattutto per rapine legate alla tossicodipendenza. E’ gente che passa, a cicli, continuamente dentro. Si sono abituati alla vita della prigione, per loro è una seconda casa. Sono persone che si fanno regolarmente i loro anni dentro, poi escono, oppure scappano, poi rientrano. Lo fanno da anni e anni.

Ho avuto paura di non avere le competenze necessarie. Pensavo: "Vado lì, racconto la mia storia, ma è sufficiente? Forse, ci vogliono competenze più specifiche". Mi sono accorta, però, che i ragazzi vengono con immenso piacere ai nostri incontri, dove si parla di tutto. Noi dovremmo fare incontri di auto-aiuto e informazione sull’Aids, ma loro ne sanno più di noi, per cui, alla fine, facciamo delle chiaccherate che spaziano su tutti i campi. Si parla di tutto, dei figli, della religione: alla fine, i temi li tocchi tutti. A volte, mi accorgo di aver commesso dei pasticci e devo rimediare. Una volta, per esempio, stavamo affrontando il tema della gravidanza e c’era un ragazzo sieropositivo, con la moglie sieropositiva, che sognava di uscire, per mettere al mondo dei figli e affrontare la vita con entusiasmo. Io, naturalmente, l’ho subito demolito. Ma quando sono uscita dal carcere mi sono detta: "Dio, cosa ho combinato! Gli ho distrutto il castello che si era costruito!". Poiché gli incontri ci sono ogni quindici giorni, ho pensato tanto al fatto se avesse ragione lui o avessi ragione io a dire che bisognava valutare bene la cosa, perché mettere al mondo un bambino in quelle condizioni, significa cacciarlo in una situazione tremendamende difficile, visto che i due genitori non si sa se soppravviveranno; vuol dire affidare questo bambino alle istituzioni, perché questi ragazzi non hanno famiglie alle spalle.
Le coppie sono salde, vedo che c’è una gran corrispondenza, che li vanno a trovare. Quando vado al bar lì davanti, vedo tutte queste donne che preparano i pacchetti da spedire dentro ai loro compagni. Un’altra cosa che mi ha sconcertato è che alcuni detenuti hanno delle compagne che, per dimostrare il loro amore, non usano precauzioni. Questo ti fa cascare le braccia: devi far capire che se vuoi bene a un uomo, gli devi stare vicino e, se sta male, tu devi stare il meglio possibile.
Un altro aspetto, che mi ha fatto sorridere, è il fatto che, quando parli di omosessualità, pur avendone combinate di tutti i colori, loro si irrigidiscono subito. Hanno b ...[continua]

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