Paolo Costa è redattore della rivista Critica liberale e ha curato, con Andrea Riscassi, la raccolta di scritti gobettiani Al nostro posto, edizioni Limina.

La figura e il pensiero di Piero Gobetti riappare, com’è accaduto recentemente, ogniqualvolta si discute della crisi delle nostre istituzioni e della nostra società, eppure quella gobettiana è una riflessione storico-politica fortemente segnata dal nascente fascismo…
Certamente, nel pensiero gobettiano esiste questo sfondo persistente, ma per una ragione biografica molto semplice: Gobetti è morto a soli 25 anni a Parigi, dove si era rifugiato per sfuggire alle persecuzioni fasciste, nel 1926, cioè quando il fascismo si stava trasformando pienamente in regime. Pertanto, è ovvio che tutta la sua riflessione sia stata indirizzata a capire la natura del fascismo. E’ difficile immaginare quali riflessioni Gobetti avrebbe sviluppato, se fosse vissuto più a lungo; rimane comunque il fatto che mostrò un grande intuito: nel 1922, proprio nelle settimane in cui i fascisti marciavano su Roma, fu tra i pochi a intuire che il movimento fascista, che si autodefiniva rivoluzionario, si sarebbe velocemente trasformato in un regime anti-liberale e piccolo-borghese, perché piccolo borghesi erano i ceti che, soprattutto nell’Italia meridionale, appoggiarono la presa del potere da parte di Mussolini.
Gobetti, a differenza di altri intellettuali liberali, pensava che il fascismo non costituisse una parentesi nella storia, sostanzialmente liberale, dell’Italia, non era l’innesto di un elemento estraneo in un percorso storico sano; viceversa costituiva, per usare una sua espressione che ha avuto una grande fortuna, "l’autobiografia della nazione". E il fascismo è l’"autobiografia della nazione" proprio perché vi si rispecchiano le debolezze della borghesia italiana, uscita profondamente immatura dall’esperienza di affrancamento nazionale del Risorgimento, essendo priva di un "senso del ceto" e perciò impreparata ad esprimere una classe dirigente. All’opposto, in Francia e in Gran Bretagna la borghesia aveva celebrato la propria rivoluzione liberale e si era definita come classe in grado di esprimere dei valori di trasformazione di tutta la società. E la borghesia imprenditoriale e produttrice, in quanto tale, era portatrice di interessi che si contrapponevano ai valori dei ceti legati alla rendita, alla proprietà terriera, al baronaggio, al retaggio feudale. Questo schema conflittuale -rendita contro reddito- che ci aiuta a capire la rivoluzione inglese del XVII° secolo e quella francese del XVIII°, non si applica però al contesto italiano. Ma il Risorgimento, l’altro grande ambito di riflessione di Gobetti, non è stato una rivoluzione borghese. Ecco che la debolezza della borghesia italiana affonda le sue radici nell’esperienza del Risorgimento: lo stato liberale che si realizza con la proclamazione dell’unità d’Italia è uno stato che ha in sé le contraddizioni che renderanno possibile l’avvento del fascismo. I mali dell’Italia -la mancanza di senso di responsabilità delle classi dirigenti, il trasformismo, la tendenza al conformismo politico e ideologico, la continua tentazione dei ceti subalterni ad affidarsi al potente di turno, di destra o di sinistra che sia- sono il portato del Risorgimento.
Si spiega così perché, alla prima tentazione autoritaria, l’Italia sia stata pronta a consegnarsi, con pochissime resistenze, nelle mani di Mussolini. Tutto questo non è cambiato neanche dopo la caduta del fascismo, ed è qui che torna di grande attualità il pensiero di Gobetti. Sarebbe troppo lungo fare la storia d’Italia, però, dopo la catastrofe del ventennio fascista e della seconda guerra mondiale, avevamo una nuova possibilità di fare i conti con il nostro passato, potevamo tornare a ragionare sulle nostre debolezze strutturali.
Anche allora, però, ci si è rifiutati di fare i conti con il nostro retaggio storico. Di fronte alla proposta di rinnovamento morale della classe dirigente, di trasformazione radicale delle istituzioni in senso liberale, che era avanzata dal Partito d’Azione, l’Italia preferì le due grandi opzioni, la cattolica e la marxista. E il Partito d’Azione, che nelle elezioni del ’46 ottenne lo 0,6%, finì per scomparire.
Oggi, dopo quarant’anni di regime democristiano, ci troviamo di fronte a una nuova crisi che potrebbe offrire un’ulteriore opportunità di chiedersi perché l’Italia sia il paese più corrotto d’Europa; perché ci tocca una classe ...[continua]

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