Davide Mazzon è Dirigente Medico presso il 2° servizio di Anestesia e Rianimazione dell’Ospedale di Treviso; coordinatore della Terapia Intensiva Neurochirurgica dell’Ospedale di Treviso; membro del Comitato di Bioetica dell’Azienda Ulss 9 della Regione Veneto.
Paola Bernardi è Caposala presso la stessa Terapia Intensiva; docente in Scienze Infermieristiche.

Il vostro è un luogo di confine, dove lavorate su un crinale difficile, quello di pazienti che improvvisamente si trovano ad un passo dalla morte. Quali sono i problemi che dovete affrontare dal punto di vista della relazione con i pazienti ed i loro familiari?
Mazzon. Nel nostro reparto di terapia intensiva vengono ricoverati un gran numero di pazienti in coma per lesioni cerebrali primitive, soprattutto traumi ed emorragie cerebrali. Si tratta di persone che spesso passano in brevissimo tempo da uno stato di benessere ad una condizione di imminente pericolo di vita. Se in un reparto di medicina o di chirurgia il paziente ed i suoi familiari possono avere di solito un approccio progressivo e graduale all’evoluzione della malattia, noi ci troviamo per lo più ad affrontare delle situazioni in cui la vita dei nostri pazienti e dei loro familiari è sconvolta nel giro di pochissimo tempo. In questo contesto, il rapporto con i familiari è indubbiamente problematico.
Spesso si tratta di persone che hanno visto il proprio marito, la moglie, o il figlio, uscire da casa per andare al lavoro o a scuola e che dopo qualche ora si trovano increduli di fronte ad un medico che comunica che il loro familiare è ricoverato in condizioni gravissime. Ci possiamo trovare quindi a fronteggiare reazioni emotive spesso tumultuose che vanno dalla negazione di ciò che è successo, alla rabbia, alla proiezione sul proprio interlocutore del rifiuto di ciò che è successo, facendone quasi il colpevole. Da questo momento, lo sviluppo di una relazione di stima e di fiducia con l’equipe curante, che potremo definire di "alleanza terapeutica", non solo è cruciale per i familiari, ma crea un clima favorevole a realizzare l’obiettivo comune di curare al meglio i nostri pazienti.
Bernardi. Non solo: in un rapporto di reciproca fiducia, la famiglia cerca di portare al medico tutti quegli elementi che ritiene lo possano aiutare nelle cure, a volte utili, a volte persino pittoreschi, riguardo allo stato di salute e alle abitudini di vita del paziente.
La tecnologia, così presente in un reparto come il vostro, crea una barriera fra i familiari e il paziente?
Mazzon. Da una parte li fa sentire impotenti a svolgere un qualche ruolo, dall’altra constatano che l’impegno del personale e la tecnologia rappresentano delle garanzie. Attualmente si sta modificando la consuetudine che vedeva le terapie intensive come ambienti isolati all’interno dell’ospedale, ambienti ultraprotetti dove i familiari avevano una relazione con i pazienti mediata da vetri, divisori, citofoni, senza alcuna possibilità quindi di un contatto umano. Queste misure, che venivano motivate con la necessità di proteggere i pazienti dalle infezioni ed oggi considerate prive di utilità se non in rare eccezioni, spesso possono mascherare la difficoltà che gli operatori hanno ad entrare in relazione con l’esterno e coi familiari; sono una protezione che essi vogliono darsi rispetto a questo tipo di interferenze. Io credo che vada affrontato il rischio di un reparto aperto, dove i familiari possono entrare, sia pure con limiti di orario, possono toccare, possono in qualche modo sentirsi partecipi attraverso una presenza che può essere utile a loro, talvolta al paziente e anche a noi per acquisire altri elementi utili a migliorare l’efficacia delle cure.
Bernardi. Negli ultimi anni abbiamo fatto un’esperienza di apertura relativa alle famiglie, non tanto nel senso di abbattere barriere fisiche, quanto di fare accettare a chi lavorava il rischio di contatti continui. Due anni fa siamo passati, infatti, dall’ingresso di un solo familiare a due. Non solo non è aumentata l’incidenza di infezioni, ma abbiamo anche raggiunto due risultati: avendo più occasioni per farsi un’idea di cosa accade nel reparto, i familiari ricavano sensazioni più dirette, possono avere un confronto; per gli operatori, invece, dove il problema è proprio il rischio di questi contatti, quindi di continui stress, a distanza di tempo ciò si è rivelato positivo, perché ha allontanato la paura del confronto, rendendoli più abili a fronteggiarlo. Posso te ...[continua]

Esegui il login per visualizzare il testo completo.

Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!