Jalel Gheyouche è un giovane medico internista che vive e lavora ad Algeri ed è militante del partito di opposizione democratica, Rcd (Rassemblement pour la Culture et la Démocratie).

Un ospedale è un luogo, per così dire, privilegiato per rendersi conto dell’ampiezza del fenomeno terroristico e delle sue conseguenze per la popolazione, in termini di stress. Puoi raccontarci qualcosa della tua esperienza all’ospedale?
Io lavoro all’ospedale di Kouba, una zona piuttosto “calda”. E’ un ospedale che assorbe il quartiere di Hussein Dey e anche la periferia est di Algeri fino a Rouiba, quando c’è sovraffollamento negli altri ospedali. Io sto per entrare nel mio sesto anno di permanenza: ho cominciato proprio nel momento in cui il terrorismo esplodeva in tutta la sua virulenza. Inutile dire dello choc di ricevere quotidianamente dei giovani assassinati, dei militari di leva o delle donne assassinate, dei feriti, per non parlare poi dello choc di coloro che arrivano a riconoscerli, a riprenderli. Quello è forse il momento più orribile: quando la famiglia arriva: sapete come succede da noi, com’è forte l’espressività del dolore, la gente che piange, urla... In particolare durante gli anni 1993 e 1994, tutte le sere arrivavano delle vittime di attentati terroristici.
I due anni più brutti sono stati quelli, il Ramadan del 1994 è stato il periodo peggiore: dal mattino alla sera ci portavano vittime del terrorismo. Cosicché, anche se non ci sono cifre affidabili, non è assurdo parlare, come si fa, di “più di 80.000 morti”. Io non ho dubbi che si debba pensare a cifre di quest’ordine di grandezza, perché ho visto cosa succedeva nel nostro ospedale: tutti i giorni almeno un morto ammazzato, è enorme.
Oggi noi medici siamo costretti a confrontarci con una situazione d’emergenza, in cui i problemi sono soprattutto extra-scientifici. I nostri problemi non sono tanto diagnostici, ma molto pratici: ottenere, per esami complementari, un appuntamento pressoché impossibile per la Tac (in Algeria la Tac è diventata un vero fenomeno di società, tutti ne parlano) oppure dover fare una ricetta a un malato sapendo che poi non ci saranno i medicinali o che il malato stesso non potrà comprarsi le medicine. Tutto ciò non permette di curare adeguatamente un altro aspetto che io considero fondamentale, soprattutto in una simile situazione: lo stato psicologico del paziente e dello stesso medico nel rapporto con lo stesso. Nella nostra formazione questo aspetto è del tutto trascurato mentre in Europa si è più avanti. Noi ci siamo ritrovati con medici stressati quanto i malati, privi di qualsiasi nozione psicologica. C’è un certo numero di malattie, annoverate ormai tra quelle psicosomatiche, in cui un fattore psichico risulta quello scatenante. Il malato può avere delle crisi che molto spesso sono dovute ad un disagio psichico. Nel nostro ospedale è altissimo il numero di malati che presentano un problema organico, ma che, se solo trovi il tempo di discutere con loro, rivelano uno stato di gravissimo abbattimento, di completa prostrazione. Io ho lavorato molto nei reparti-donne e tantissime ragazze e giovani donne ricoverate, dopo un po’ che stavi a parlare con loro, ti confessavano che venivano da un villaggio dove c’era stato un massacro o ti raccontavano che avevano avuto un fratello assassinato.
C’era una giovane donna che accompagnava la madre in visita all’ospedale. Avevo constatato che veniva molto regolarmente e siccome durante le visite ho più tempo per intrattenermi con i malati, avevo avviato un piccolo dialogo, per quanto si possa parlare di dialogo fra un medico e una ragazza stanca e impaurita che non ha l’abitudine di parlare a un uomo. Ebbene, questa ragazza veniva molto più per potersi esprimere che altro, era per questo che fissava gli appuntamenti per la madre che non necessitava neppure più di cure.
Ho una paziente con una malattia organica grave: abitava lontano da Algeri, a Jijel e, dovendo fare periodicamente degli esami, mandava da noi il marito con il sangue per le analisi; un giorno, però, il marito ebbe un incidente stradale mortale. La donna restò a Jijel con sei figli, ma era talmente malata che dovette essere ricoverata ad Algeri, dove non ha familiari, per cui non ha potuto portare con sé i figli. Oggi tutti e sei sono a Jijel con la maggiore di loro, che ha 17 anni, incaricata di occuparsene: la casa è alla periferia della città, i bambini abitano soli e hanno paura, la sera vanno a nas ...[continua]

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