Vincenzo, 37 anni e due figli, fa il venditore ambulante di articoli d’abbigliamento a Napoli.

Sono nato a Napoli, nel quartiere San Lorenzo, zona di Porta Capuana, un quartiere popolare. La mia infanzia me la ricordo bella perché io ci sono nato là dentro e a viverci ci si abitua, ma è un quartiere un po’ particolare, la nostra ricreazione era la strada. A sei anni già stavo in strada e in seconda elementare lavoravo: al pomeriggio portavo il caffè per i negozi. Eravamo cinque sorelle e io, l’ultimo di una famiglia molto umile. I miei erano ambulanti, mia madre vendeva i panni americani (gli abiti usati) al mercatino di borgo Sant’Antonio e non aveva neppure la licenza, mio padre invece ce l’aveva, vendeva intimo e calzini, ma non aveva la partita Iva. Io ho provato a fare le superiori, istituto tecnico industriale, ma ci sono andato un anno solo perché ho capito che, non lavorando più il pomeriggio nel bar, non ce la facevo economicamente. Insomma, dovevo lavorare. Così decisi di fare il commesso, ma dopo un anno e mezzo abbandonai, perché era molto poco retribuito (era il ’75 e io prendevo 20.000 lire alla settimana) e poi per me era traumatico chiudermi tutto il giorno in un negozio, mentre vedevo i miei amici che ancora giocavano, si divertivano, andavano a scuola, ché la scuola a un certo modo è un divertimento. Allora andai in una fabbrica di borse ad imparare a fare il tagliatore di pelli. Dopo due o tre anni ho cambiato fabbrica e lì i titolari mi volevano inquadrare, visto che ormai conoscevo il mestiere, ero io che non volevo, perché a Napoli c’era sempre la speranza di un posto nel pubblico impiego, inoltre in queste fabbriche, anche se sei inquadrato, non è che lavori 8 ore al giorno, ne lavori 9 o 10, e io non me la sentivo di fare quel mestiere per tutta la vita. Nei laboratori non si sta molto bene, perché, essendo piccoli, c’è troppo il contatto diretto col principale, e ce ne sono di intelligenti, ma anche di quelli che creano solo casino, che ti stanno sempre addosso come mastini e se vai in bagno più di due volte ti guardano. Devi avere un carattere che accetta delle condizioni, delle umiliazioni a volte, e io non ce l’avevo proprio. A me mi tenevano perché mi conoscevano da piccolino, e poi ero bravo a tagliare la pelle, mi ero specializzato nel taglio dei borsoni da viaggio ed ebbi molte offerte anche dal Nord. C’era una fabbrica di Padova che aveva un contatto di lavoro col mio principale, mandavano borse in Germania insieme, a loro servivano un paio di tagliatori che sapessero tagliare i borsoni, andammo io e un mio collega. Guadagnavo bene là, mi sarebbe convenuto inquadrarmi, però non riuscii a starci, a me piace Napoli, sono nato qua e poi sono molto legato alla mia famiglia. Anche se credo che alla fine mi sarei abituato al modo di vivere del Nord.

Nel 1985 morì mio padre, presi la sua licenza e decisi di tentare la professione di ambulante, anche perché col mestiere di tagliatore non avrei potuto mettere su famiglia. Fino agli anni ’70, quando si risentiva ancora del boom economico, nella fabbrica dove lavoravo io c’erano quasi 50 dipendenti, parecchi inquadrati, poi il settore è andato un po’ in crisi e, siccome stavo a cottimo, ho iniziato a lavorare di meno. In questo tipo di lavoro il limite è che più di una certa somma alla settimana non puoi guadagnare, io riuscivo a prendere 200 o 250.000 lire la settimana, avrei dovuto lavorare 15 ore al giorno per guadagnare di più. Per questo mi misi a fare i mercati vendendo abbigliamento, non è che mi piaccia, ma dall’85 al ’90 mi ha dato delle belle soddisfazioni, almeno dal punto di vista economico. Ora invece non si vende più, perché Napoli viveva molto sull’edilizia e col blocco degli appalti è venuta una crisi generale. Però non mi sono mai pentito di non essermi fatto inquadrare come tagliatore di pelli, sono molto individualista, anche nel mio piccolo: devo essere io il proprietario. Non ce la faccio a pensare di fare per tutta la vita la stessa cosa e guadagnare sempre la stessa cifra, sono più contento così: oggi ho guadagnato 100, domani 200. Certo, ho dei problemi, ma i miei figli stanno bene, riesco a farli vivere bene, anche se non ho la sicurezza di riuscire ad assicurargli un futuro. E comunque vivo meglio di un operaio, anche se per farlo evado e non pago tutto quello che dovrei pagare, perché non ce la faccio. L’Inps, per esempio, sono 4 anni che non la pago, sarebbero più di 4 milioni all’anno e con ...[continua]

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