Augusto Cavadi è un insegnante di filosofia palermitano che coltiva anche interessi teologici (è diplomato in teologia presso la Pontificia Università del Laterano). Fra le sue più recenti pubblicazioni Essere profeti oggi, Edizioni Dehoniane, Bologna.

Recentemente ti sei interrogato sulla situazione culturale e politica nell’epoca del nichilismo. In particolare hai analizzato la condizione spirituale del cristiano...
Per comodità di discorso ho preso spunto dalle relazioni, molto suggestive, di Orlando Franceschelli sul tema del nichilismo. Egli, riprendendo alcune tesi del suo più recente scritto (Karl Loewith, Le sfide della modernità tra Dio e nulla, Donzelli, Roma 1997), ha proposto di intendere per nichilismo in senso completo quella visione delle cose caratterizzata da una duplice negazione: la negazione di Dio e più in generale della trascendenza (nichilismo teologico o metafisico) e la negazione della consistenza ontologica e dell’intelligibilità del mondo (nichilismo cosmico).
Ebbene, per onestà intellettuale, ho dovuto ammettere -come base per la discussione- che il cristianesimo, così come storicamente si è configurato in questi primi duemila anni, può essere con molte ragioni individuato fra le matrici del nichilismo. Se si considera la dimensione cosmologica del nichilismo contemporaneo, è troppo facile denunziare (come fa lo stesso Jacques Maritain ne Il contadino della Garonna) il lungo e penoso equivoco che ha indotto ad estrapolare il “disprezzo del mondo” dal piano metaforico e lirico dei mistici al piano teoretico dei pensatori cristiani: col risultato, gravissimo, di una diffamazione della natura, della materia, della sessualità, dello spessore terrestre dell’esperienza umana insomma. Ma -nonostante le apparenze- il cristianesimo ha contribuito anche all’avvento del nichilismo teologico se è vero, per riprendere alcune espressioni un po’ forti di Heidegger, che i primi assassini di Dio sono stati quei teologi che lo hanno soffocato sotto montagne di parole. Anche misurando i toni, non si può misconoscere il processo molto strano per cui il germe del vangelo (così essenziale, così circoscritto) si è andato amplificando, articolando sino a raggiungere le dimensioni impressionanti della dogmatica ecclesiale attuale: col risultato di una “cosificazione” dell’Ineffabile, di una “entificazione” del Mistero. Questa superfetazione ha forse assecondato quella “sete di concretezza” che, secondo Mircea Eliade, connota ogni esperienza religiosa, ma, alla fine dei conti, ha ridotto Dio ad un insieme di concetti talmente antropomorfizzati da provocare, per contrasto, una sorta di ateismo per devozione.
Una volta preso coscienza di tutto questo, che fare? Nel corso di alcuni seminari svoltisi questa estate, ognuno di noi ha proposto un suo percorso intellettuale -che è anche, quasi sempre, esistenziale e sociale- di uscita dal nichilismo. Perciò mi son sentito autorizzato, e in qualche misura costretto, a proporre alcune indicazioni sommarie per un cristianesimo post-nichilistico che assuma, con tutta la serietà possibile, le deformazioni del proprio passato e le sfide della modernità. In quest’ottica la prima -prima nel senso di preliminare ma anche di fondamentale- indicazione l’ho ricavata proprio da due maestri della secolarizzazione (Hegel e Nietzsche): l’invito a distinguere nettamente la figura e il messaggio originario di Gesù di Nazareth dal cristianesimo come plesso di dottrina e istituzione. So che non è facile né emotivamente né esegeticamente, ma non vedo altra strada che azzerare (metodologicamente) i venti secoli di “istituzione” per tentare di cogliere il “movimento” nei suoi atti fondativi. Credo che sia un dovere, ma più ancora un diritto, per l’uomo contemporaneo fare i conti col cristianesimo del vangelo prima di decidere di rinnegare il cristianesimo tout court.
E che cosa potremmo scoprire, con questo passo indietro, che non sia già noto e scontato?
Se ci può essere utile come schema orientativo che in qualche modo incanali un magma incandescente, risponderei in continuità con l’idea di nichilismo -sopra evocata- quale duplice negazione di Dio e del mondo. E direi che, quanto al primo aspetto, una rilettura con occhi semplici del Nuovo Testamento ci mette in contatto con un Cristo assai poco “cristocentrico”: un Cristo che non annunzia sé stesso, ma rimanda ad altro. Abitualmente -e pigramente- siamo indotti a pensare che la novità essenziale e determinante de ...[continua]

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