Teresa Frigo, con i figli Diego e Alessandra, vive a Vicenza.

Quello sì è stato un bel periodo. Allora ero felice, serena. Ricordo che alla domenica dopo la messa rientravo verso mezzogiorno e mezzo e ci sedevamo tutti a tavola: Diego, l’Alessandra, mia mamma e mio papà. E dicevo: "Guarda che bello! -magari loro due si stavano dando dei calci sotto il tavolo- Mi pare di avere una famiglia normale, come le altre". Ecco, ero anche contenta, nel senso che mi rendevo conto della situazione, però ci volevamo bene. E per un attimo mi dimenticavo di tutto, mi sembrava che con Diego e l’Alessandra non ci fossero poi tutti questi problemi. Certo, magari si trattava di un’illusione che durava solo il tempo del pranzo e appena ci si alzava dovevo ricominciare a rincorrerli. Però non era un grande sacrificio per me, semplicemente era così e accettavo la situazione.

Io sono nata nel maggio del 45, la guerra era appena finita. Mio papà era stato ferito l’anno prima, nel 44, per cui quando sono nata lui si trovava ancora in ospedale; è venuto a casa solo a novembre del 45.
Era in condizioni tristissime: aveva perso una gamba. Era stato ferito proprio alla fine, in quel brutto bombardamento che c’è stato a Vicenza il 18 novembre del 44. E’ stata quella la giornata nera. Quel giorno in casa, oltre a una mia zia, che si chiamava come me, Teresa, e che è rimasta uccisa, c’era anche mia sorella che aveva poco più di tre anni, e che in mezzo a quel bombardamento, per fortuna, è stata graziata.
Mia mamma quella mattina era andata a fare la spesa, era uscita in bicicletta e si trovava a 7-8 chilometri da dove abitavamo. Ed era terrorizzata perché lungo la strada aveva capito cos’era successo: una tragedia, così, senza preavviso avevano cominciato a bombardare...
Comunque la mia infanzia è stata serena. A 14 anni, finito le scuole, sono andata a lavorare. A 16 anni si è sposata mia sorella e sono rimasta solo io in casa coi miei. Avevo trovato anche un bel lavoro, alle Arti grafiche, si lavorava sulla carta e mi piaceva tanto.
Mi sono sposata a 24 anni e a 26 è nato Diego.
All’inizio io e mio marito avevamo trovato casa vicino ai miei, però si era pensato di metterci assieme, perché loro avevano una casa fredda, poco confortevole e anche la mia era senza riscaldamento. E poi una volta nato Diego io così avrei potuto riprendere il lavoro, perché ci sarebbe stato sempre qualcuno in casa; mia madre era giovane allora, aveva 52-53 anni.
Così prima che nascesse Diego siamo andati ad abitare tutti assieme nella zona di San Bortolo in un bell’appartamento, con tre camere, la cucina, il soggiorno, una casa spaziosa e confortevole.
Abbiamo traslocato in luglio, e nel novembre del 69 è nato Diego. 30 anni fa però non c’erano le vaccinazioni e io nei primi mesi della gravidanza mi sono accorta di avere la rosolia.

Ricordo di essermi subito precipitata dal dottore, dal ginecologo, volevo sapere, informarmi, capire. Ma tutti mi dicevano di stare tranquilla, anche il professore dell’ospedale. Io però ho trascorso i 9 mesi sempre col pensiero, non sono mai stata tranquilla. Perché mia sorella aveva un’enciclopedia medica e lì avevo letto quali conseguenze porta la rosolia.
Così, una volta nato Diego, ho voluto subito che me lo mostrassero, perché avevo il terrore. Invece alla nascita era un bambino con un aspetto normale, bello, pesava kg 2,770. E’ nato di domenica, alle 11.30, ed è stata una cosa bellissima. Ma è durata poco, perché dopo 8 ore Diego ha avuto un’emorragia cerebrale; erano andati a prenderlo per allattarlo e l’avevano trovato quasi morto. Allora hanno telefonato a casa mia e hanno comunicato che il bambino era molto grave e che bisognava lasciar passare 48 ore per avere una risposta. Lui le ha anche superate bene queste 48 ore, senza ulteriori complicazioni, ma è rimasto lesionato alla testa, e questa è stata proprio una complicazione della rosolia. E da lì è cominciato il calvario per Diego, perché dopo hanno scoperto che era un bambino epilettico e hanno dovuto metterlo subito sotto terapia. Non aveva ancora un anno, poverino. E abbiamo passato i suoi primi anni di vita con tanta paura, tante preoccupazioni. Io l’ho sempre tenuto vicino al mio letto, in camera mia, perché volevo sentire il suo respiro.

A Vicenza allora non c’era niente, c’era un piccolo centro di rieducazione a Valdagno dove lo portavo tre volte alla settimana, per fare un’oretta di riabilitazione, di ginnastica, anche un po’ di ma ...[continua]

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