Eraldo Affinati, scrittore, è nato nel 1956 a Roma, dove oggi insegna in un istituto professionale. Ha pubblicato fra l’altro, Campo del Sangue (Mondadori 1997), Uomini pericolosi (Mondadori 1998), Il nemico degli occhi (Mondadori 2001). Il libro di cui si parla nell’intervista è Un teologo contro Hitler, Mondadori 2002.

Mi ha colpito molto questa tua scelta esistenziale, prima ancora che letteraria o religiosa, di occuparti di Bonhoeffer. Io ad esempio non conoscevo molto la sua figura. A te com’è successo di incontrarlo?
Nel 1995 avevo compiuto un viaggio da Venezia ad Auschwitz insieme a due miei amici sulle tracce dei deportati italiani: da quell’esperienza era nato un libro, Campo del sangue. Per scriverlo avevo letto molti testi sui lager e sulla concentrazione novecentesca, fra i quali anche Resistenza e resa di Bonhoeffer. Quelle lettere scritte dal carcere berlinese di Tegel mi attrassero in modo irresistibile. A un certo punto mi sono avvicinato ad altre sue opere come Etica, Sequela, Vita comune. Nei confronti di Bonhoeffer ho sentito un afflato quasi fosse un personaggio romanzesco: ho avuto lo stesso trasporto che ebbi quando lessi per la prima volta Guerra e pace e mi identificai in Pierre Bezuchov. Pian piano, la lettura mi ha trascinato verso i luoghi; allora dai libri sono passato all’azione concreta visitando innanzitutto il lager di Flossenburg, poi le case dove questo giovane rampollo di una celebre famiglia aristocratica tedesca era vissuto, in particolare quella di Marienburger Allee a Charlottenburg, che oggi è diventata un museo. Sono andato a Stettino, in Polonia, sede di un celebre seminario religioso, e a Ettal, in Baviera, nel monastero dove fu composta gran parte dell’Etica. Sono stato anche a New York, inseguendo a Ground Zero, fra le macerie delle Twin Towers, il fantasma di Bonhoeffer. Nell’estate del 1939, poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, egli si trovava in America per tenere una serie di conferenze.
Avrebbe potuto salvarsi se, come molti suoi connazionali, fosse rimasto lì; invece decise di tornare in Germania, in quel fatidico luglio, per condividere le sorti del suo Paese. Sappiamo che entrò nell’Abhwer, il controspionaggio militare: a capo di quel servizio segreto c’era Canaris, che faceva il doppio gioco, e partecipò alla congiura contro Hitler.
Leggendo il tuo libro, di Bonhoeffer mi ha colpito moltissimo l’idea di “dare più valore all’azione necessaria che a mantenere immacolata la propria coscienza” (cito letteralmente), presente nel prologo al libro Resistenza e resa; una frase che sottolinea l’importanza dell’assunzione delle responsabilità politiche e storiche, anche se queste dovessero portare all’assunzione di una colpa...
Bonhoeffer orientò tutta la sua azione verso un coinvolgimento nella tragedia nazista. La sua etica consiste nell’entrare dentro la contingenza storica, misurandosi con le cose, senza preoccuparsi di conservare una coscienza immacolata: questo per un cristiano rappresenta un gesto di assunzione di responsabilità. Io credo molto in questa accezione del termine “responsabilità”; Bonhoeffer mi ha insegnato infatti che non è soltanto un concetto di tipo giuridico -essere responsabile di fronte alla legge- o di tipo morale -essere responsabile di fronte alle proprie convinzioni, ai propri valori. Una volta Dostoevskij dichiarò: “Io mi sento responsabile appena un uomo posa il suo sguardo su di me”. Questa responsabilità di tipo assoluto, pre-sociale, pre-giuridica, pre-morale è, secondo me, quella a cui pensava Bonhoeffer.
Mi colpisce molto anche questo insistere di Bonhoeffer sul tema della mondanità, cioè sull’idea che si possa essere salvi soltanto restando sulla terra...
Secondo lui il mondo doveva raggiungere la maggiore età. Ciò lo portò a formulare l’idea di un cristianesimo senza religione. Il vero cristiano dovrebbe stare nel mondo con tutt’e due le gambe, diceva, e non con una gamba sola, perché “chi sta con una gamba sola in terra probabilmente starà con una gamba sola anche in cielo”. Questa acquisizione di mondanità significa poter fare a meno di Dio, riuscire a vivere come se Dio non esistesse, nel senso di non considerarlo un tappabuchi, colui che risolve i problemi della nostra vita, naturalmente però affidandosi, in quanto cristiani, alla sua misericordia. Bonhoeffer era un cristocentrista appassionato e fervente: sbagliarono quei teologi americani che, nel secondo dopoguerra, lo considera ...[continua]

Esegui il login per visualizzare il testo completo.

Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!