Rita Parisi è segretario provinciale del Siulp di Bologna.

I fatti di Genova del luglio 2001 hanno reso evidente uno scollamento fra la polizia di Stato e la società civile. E’ un fenomeno nato a Genova o preesisteva?
Noi abbiamo avvertito i primi sintomi di scollamento dopo i fatti della Uno Bianca. La prima svolta autoritaria cui abbiamo assistito non è partita dai cittadini ma dall’interno dell’organizzazione delle forze di polizia, a danno dei poliziotti. Dopo la scoperta della banda della Uno Bianca si aspettava una risposta di natura culturale, invece c’è stata una risposta repressiva sui poliziotti. Tutto quello che è accaduto è stato letto in chiave di mancato controllo sui lavoratori di polizia. Da allora abbiamo colto indizi inequivocabili.
Si tratta di provvedimenti precisi o di una filosofia generale?
Faccio qualche esempio. Dopo la scoperta della banda, fu rilanciata la funzione dell’Ufficio ispettivo, che fino a quel momento svolgeva funzioni esclusivamente burocratiche, di gestione matricolare. Fu rilanciato con funzioni di controllo sugli altri uffici. L’Ufficio ispettivo è diventato da poco Direzione interregionale con funzioni di controllo sugli uffici periferici ad altissimo livello. Poi c’è il caso del Rapporto informativo sui poliziotti. Dopo i fatti della Uno Bianca, fra gli elementi negativi riscontrati dalla commissione di inchiesta del prefetto Serra, si rilevava che le valutazioni cui i poliziotti sono soggetti ogni anno -già di per sé una mortificazione enorme- erano tutte appiattite verso voti alti. E’ uscito anche un decreto ministeriale sul Rapporto informativo, con l’indicazione di usare metri di misura più rigidi ed essere più severi nelle valutazioni. Noi non facciamo che avanzare ricorsi, perché questi giudizi si prestano a ingiustizie e parzialità. Sono stati costruiti a tavolino per essere rigorosi, ma poi non reggono al confronto con la realtà. Fra le voci prese in considerazione c’è la moralità. Come si giudica? Fra l’altro il procedimento prevede l’intervento di due soggetti: il compilatore e chi sintetizza il giudizio (sempre superiori del poliziotto valutato). Il compilatore può non conoscere il soggetto e valutare sulla base di elementi desunti da atti d’ufficio.Tutto ciò crea disagio. Essere sottoposti a giudizio già crea un clima di tensione. E poi un Rapporto informativo negativo può frenare la carriera. Con questi strumenti si induce una sudditanza nei confronti del dirigente: questo è il principale prodotto. Non aumentano certo l’autonomia e il senso di responsabilità.
E’ corretto dire che in polizia si assiste a un processo di ri-militarizzazione strisciante?
E’ in corso un’accentuazione della cultura gerarchica. Faccio un altro esempio. Nei giorni scorsi un dirigente d’ufficio ha emesso un provvedimento assolutamente incongruo rispetto all’obiettivo. Fra le persone che come me si erano accorte dell’anomalia c’era un funzionario di polizia, il quale mi ha confessato candidamente che non si è sentito di dire al collega che il provvedimento non era opportuno, perché dopo qualche giorno sarebbe andato a lavorare alle sue dipendenze.
“Lei capisce -mi ha detto- lui è il mio prossimo dirigente, non me la sono sentita di parlare”. Ecco che cosa significa la cultura gerarchica, alla fine ha ragione chi ha più gradi. Più militari di così...
La riforma del 1981, che smilitarizzò la polizia, si proponeva di andare in tutt’altra direzione…
La riforma doveva offrire un modello di polizia democratica che lavora non per compiacere le gerarchie, ma al servizio del cittadino. La fiducia del cittadino dev’essere la cosa dominante; invece, oggi, nell’insieme c’è un orientamento ad organizzare, agire e pensare in funzione del consenso che puoi avere dalle gerarchie. Lo vediamo a tutti i livelli. Lo dico senza nulla togliere ai tanti funzionari e dirigenti di grande affidabilità democratica che abbiamo in polizia. Ma i segnali che dobbiamo considerare sono numerosi. Prendiamo la figura del cappellano. Anche questa è stata rilanciata. Sono stati reimmessi nei ruoli: ora si chiamano “assistenti spirituali”, ma la matrice culturale è ancora quella militare. Non ho nulla contro i sacerdoti, posso riconoscere tutta la valenza dell’assistenza spirituale per chi crede, però m’interrogo anche sul senso di una scelta del genere rispetto a un settore così importante del pubblico impiego. Qual è il senso della scelta? Perché altri settori del pubblico impiego non ce l’ ...[continua]

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