Daniela De Pietri, imprenditrice agricola, è vicepresidente della Commissione pari opportunità del comune di Carpi, Modena. La mostra fotografica di cui si parla nell’intervista sarà inaugurata a Carpi il 10-11 marzo.

Ci puoi descrivere la vostra iniziativa?
Siamo quindici donne che fanno parte di una commissione pari opportunità, e ci occupiamo di donne in vari contesti: immigrazione, lavoro ecc. Con quest’ultimo progetto ci siamo accostate alle problematiche della carcerazione femminile, con l’intento di far conoscere all’esterno un mondo che vive secondo regole proprie, totalmente differenti da quelle esterne, dettate dai bisogni, da una gerarchia e da un sistema di potere assolutamente particolari.
Inoltre volevamo far emergere il fatto che i problemi delle donne recluse sono diversi da quelli degli uomini; c’è nelle detenute una necessità particolare di affettività, un bisogno più forte di creare e mantenere i legami con l’esterno, di non perdersi in questo limbo che è il carcere. Quindi serve tutta una serie di d’iniziative e di progetti pensati e studiati su misura per loro.
Il nostro progetto si è articolato in due fasi: nella prima era prevista una raccolta di materiale -foto e storie delle donne recluse- da parte di una giornalista e di fotografi professionisti; nella seconda fase invece sono state le detenute stesse a scattare le fotografie: abbiamo distribuito delle macchine fotografiche usa e getta alle donne che avevano deciso di partecipare al progetto e le abbiamo ritirate dopo circa venti giorni-un mese.
Quello che ne è uscito è abbastanza incredibile. Tutto il materiale raccolto sarà poi utilizzato per una mostra fotografica. Abbiamo pensato alla fotografia come mezzo di comunicazione perché è abbastanza coinvolgente: le persone visitano volentieri una mostra fotografica, si fermano davanti a una foto che le colpisce.
Avete trovato collaborazione o diffidenza tra il personale del carcere?
Abbiamo trovato molto appoggio da parte dei direttori delle carceri; invece da parte degli agenti di polizia penitenziaria inizialmente c’è stata un po’ di diffidenza, superata peraltro quando hanno visto il nostro modo di lavorare, il nostro comportamento. Tra l’altro il progetto ha coinvolto anche loro, abbiamo raccolto pure le loro storie -le immagini no perché non hanno voluto; abbiamo trascorso con loro una giornata intera, e devo ammettere che ne siamo usciti abbastanza sconvolti perché abbiamo trovato una mentalità piuttosto chiusa; io li immaginavo più aperti, più disponibili, soprattutto gli agenti giovani. D’altronde anche loro ammettono che la loro preparazione è molto superficiale, è una formazione che dura solo sei mesi e non fornisce gli strumenti necessari per poter svolgere il loro lavoro diversamente.
Le detenute invece come hanno reagito?
Inizialmente anch’esse con un po’ di diffidenza. Ad esempio la presentazione del progetto è stata abbastanza difficile, la prima cosa che mi hanno detto è stata: “Voi venite qui solamente perché vi interessa, ci volete rubare delle immagini per dopo”. Noi però non abbiamo mai forzato la mano, e soprattutto, siamo stati chiari sin dall’inizio, perché l’importante è non creare in loro false aspettative ed essere sinceri al 100%. Infatti, se arrivi da fuori, inevitabilmente le detenute ti chiedono: “Puoi fare questo per me?”, “No, questo non posso farlo, l’unica cosa che posso fare è stare con te per questa giornata e vedere se ne esce qualcosa”. E, alla fine, la nostra serietà e la nostra professionalità sono state da loro riconosciute, persino per iscritto; infatti alcune di loro, con le quali si sono instaurate delle relazioni, ci hanno scritto dicendo: “Credevamo fosse una cosa negativa, invece, ci siamo trovate benissimo con voi, vi ringraziamo di averci fatto passare tre mesi diversi dal solito”, e cose del genere. Devo dire che anche per noi l’esperienza è stata molto importante, molto forte. Con alcune di loro continuiamo a sentirci, anche adesso che il progetto è terminato; quando vanno in permesso a trovare la famiglia e i figli, ci telefonano.
Dicevi che le problematiche delle donne recluse sono diverse da quelle degli uomini…
Innanzitutto la popolazione carceraria femminile è esigua, le donne recluse sono solo 2.500 (contro 57.000 uomini), e quindi non hanno peso; in più di solito le sezioni femminili sono collocate dentro enormi carceri maschili; sono sezioni di 50-60 donne che vengono lasciate nell’abbandono totale, ...[continua]

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