Sandi Hilal, giovane architetta palestinese, oggi vive a Milano. Attualmente, assieme ad Alessandro Petti, è impegnata nel progetto “Stateless nation” (Nazione senza Stato), un’installazione sull’identità palestinese nell’ambito della prossima Biennale di Venezia.

Sono nata a Betlemme, e gli ultimi anni di scuola li ho fatti durante la prima Intifada, che significa che duecentocinquanta giorni all’anno le scuole rimanevano chiuse. Così sono cresciuta in queste scuole “di quartiere”, dove c’erano ragazzini dai 13 ai 16 anni: le lezioni si tenevano in garage privati messi a disposizione dalla gente. L’idea di rimanere nell’ambito del quartiere era dovuta all’impossibilità di spostarsi durante il coprifuoco. Crescere in queste scuole significa tante cose, intanto suscita un forte senso di sfida e di coraggio perché andare a scuola è un’azione pericolosa e allora, nel momento in cui hai questa opportunità, vuoi assolutamente studiare; è anche una forma di riscatto.
L’università l’ho fatta ad Hamman, in Giordania, perché in Palestina l’occupazione aveva interrotto tutte le attività accademiche, ma non ho potuto scegliere la facoltà. Dopo un anno e mezzo per fortuna ho vinto una borsa di studio per studiare in Italia. Architettura.
Mi sono laureata nel 2000, con una tesi di laurea su Gerusalemme e sul significato della tolleranza e della convivenza in architettura. A quel punto, sono voluta tornare in Palestina; era l’agosto del 2000: proprio le settimane in cui stava scoppiando la seconda Intifada. Nonostante le tensioni, sono rimasta perché per i giovani urbanisti era comunque una sfida appassionante e gli spazi di intervento c’erano, infatti ho subito trovato lavoro presso il Ministero della Pianificazione e cooperazione internazionale, il mio lavoro ideale: ero nel gruppo di urbanisti e architetti che lavoravano su Gerusalemme. Evidentemente non era facile pensare al futuro di una città mentre veniva bombardata, sembrava tutto un po’ paradossale; tra l’altro il Ministero della Pianificazione era proprio vicino alla zona dei bombardamenti. Di lì a poco ci siamo messi a lavorare soprattutto su dei piani di emergenza.
Uno degli aspetti che ugualmente abbiamo voluto indagare sul terreno è stato il raddoppiarsi degli insediamenti israeliani all’interno dei Territori Occupati. Volevamo capire e documentare come nascevano.
Ebbene, nella maggior parte dei casi si trattava di due o tre roulotte che si appostavano non solo occupando un territorio, ma interrompendo, separando le aree palestinesi. Io allora vivevo tra Betlemme e Ramallah e gli spostamenti erano faticosissimi, a volte ci mettevo tre ore, anche cinque, sempre per via dei posti di blocco, altre volte invece semplicemente non si riusciva neanche ad arrivare al lavoro e quindi si rimaneva a casa a inventare delle cose da fare. Dopo un anno trascorso così, ho vinto una borsa di studio per un master in Urbanistica per i paesi in via di sviluppo, e sono tornata a Roma.

La Palestina per un urbanista è un contesto straordinario, un laboratorio dove è possibile studiare tutti quei meccanismi legati al territorio, ai confini, all’utilizzo degli spazi, delle vie di comunicazione, che in qualche modo ritrovi in forme diverse, meno pesanti, dappertutto, anche in Europa. Solo che lì invece è tutto estremizzato. Oggi, col professor Stefano Boeri, utilizziamo il contesto israelo-palestinese come laboratorio per studiare il concetto di confine e per osservare questi fenomeni di trasformazione del territorio. Il lavoro è iniziato all’università di Venezia e ora prosegue presso un’università di Rotterdam, è un lavoro in progress che si sposta da un corso all’altro…
Quando è scoppiata la prima Intifada io avevo 13 anni. Se penso ad allora, ciò che continua a intristirmi è avvertire che, in qualche modo, in questa seconda Intifada c’è qualcosa che non va. Nella prima ogni palestinese, dal bambino al vecchio, era completamente coinvolto, c’era proprio un fattore di scelta personale, di moto spontaneo, per cui anch’io, pur ragazzina, avevo sentito subito di far parte di questa rivoluzione. Questa seconda Intifada è diversa, intanto perché è un’Intifada militare, quindi non è nonviolenta, e poi la gente subisce, non è attiva; cioè nella prima erano proprio le singole persone che scendevano in strada, che si mobilitavano.
Ma forse ciò che mi ha maggiormente sorpreso è stata la radicale diversità nelle reazioni. Durante la prima Intifada noi rifiutavamo og ...[continua]

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