Grazia Grena vive a Lodi.

A mio figlio non avevo detto nulla, fino a circa un anno fa, perché non sapevo come fare. Avevo paura che la pigliasse molto male e, anche, che potesse sentirsi diverso dagli altri. Avevo anche cambiato casa proprio per venir via da un paese piccolo, dove tutti sapevano. Invece qua nessuno sapeva nulla. Però c’era sempre un po’ di mistero, qualcosa evidentemente capiva, o meglio, intuiva. Quando ci fu l’omicidio Biagi, e ancora io non gli avevo detto niente, mi chiese: “Ma le Brigate Rosse di una volta erano come queste di adesso?”. Alessandro non aveva mai accettato che facessi volontariato in carcere: ogni volta che dovevo andare, lui stava malissimo. Fisicamente male. Avevo cercato di parlarne in tutti i modi, gli chiedevo cosa gli desse fastidio, e una volta mi disse di aver paura che non mi facessero uscire più.
Poi parlandone con le compagne di allora, capii che il problema non era solo mio, così organizzammo un gruppo di ex, sia uomini che donne, con alcune psicologhe che lavoravano proprio sul “mistero”. Quel mistero che da parte dei ragazzini, ci dicevano, viene percepito come un buco nero e provoca tanta insicurezza, perché è qualcosa che allontana.
Alla fine, per dirglielo, colsi l’occasione della sua resistenza al mio volontariato in carcere e chiamando a raccolta tutte le mie energie gli dissi: “Non possono non farmi uscire perché io ci sono già stata in carcere”. Gli spiegai a grandissime linee come era stata la cosa e lui reagì con un fuoco di fila di domande. La prima fu rispetto al padre, se anche lui era stato in carcere, la seconda se avevo ucciso qualcuno. Lì esitai perché non volevo ricominciare a mentire nel momento in cui avevo appena detto la verità, però è anche vero che io non ho ucciso nessuno. Risposi: “No, non ho ucciso nessuno”. Come fargli capire che comunque, moralmente, avevo condiviso quella storia? Era difficile. Man mano che crescerà si approfondirà il discorso.
Da allora le cose con lui sono andate molto meglio. Vado a San Vittore con serenità, sapendo che lui è tranquillo. Continua a non vedere di buon occhio la cosa, però ha capito che per me è importantissimo andarci… Lui aveva conosciuto alcune delle persone del gruppo Cuminetti, a cui io sono molto legata, e si era sentito bene accolto. Fra gli altri aveva conosciuto Marcello Bernardi, il pediatra, che era stato tra i primi a venire in carcere nell’85, e lo aveva fatto sentire subito a suo agio. Ha conosciuto anche Camillo (padre Camillo de Piaz, ndr) e io gli ho spiegato come avevo conosciuto queste persone e che loro mi avevano aiutato quando ero in carcere dandomi la possibilità di continuare ad avere una relazione con il mondo esterno e che ora, nei limiti del possibile, volevo far qualcosa io per quelli che stanno dentro.
Quando ci sono stati i fatti di Genova, la televisione era accesa ventiquattr’ore su ventiquattro, Alessandro mi ha chiesto se quello che io avevo fatto era così e io a spiegare che a grandi linee comunque è partita così, che c’era un movimento... Adesso lui sta leggendo un libro sui ragazzi ai tempi della guerra, è una parte di storia che gli interessa molto e quindi mi fa tantissime domande. Però non mi chiede più il mio ruolo, e le psicologhe dicono che noi non dobbiamo assolutamente anticiparli, saranno loro a farci le domande quando ne sentiranno il bisogno. Nei giorni successivi a quando ci siamo parlati, c’era stato come un gioco a indovinare dei miei amici “chi sì e chi no”, chi aveva una storia simile e chi invece non c’entrava nulla con quella storia. Era stato anche divertente e questa cosa gli aveva dato sicurezza: non eravamo più solo io e il suo papà.
Nel gruppo di ex ora qualcuno ha risolto, qualcun altro non ha ancora detto nulla. Non è facile. La questione dell’omicidio, certo, è molto più problematica. Infatti questo non siamo riuscite ad affrontarlo neanche nel gruppo, dove c’è chi ha il problema. Le psicologhe dicono che i figli ci perdonano e ci capiscono, però per noi rimane la paura che non sia così semplice.

Voghera è stata pesantissima. L’ingresso innanzitutto: il denudamento, i piegamenti, la doccia, la divisa, i cancelli, le parolacce, la musica a tutto volume. Volevano destrutturare la nostra persona. Volevano impedire che arrivando si sentissero le voci delle donne, delle compagne che erano alle finestre. Dopo ogni arresto, infatti, facevano i turni giorno e notte in finestra per verificare chi arrivava, d ...[continua]

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