Jeff Halper, originario degli Stati Uniti, si è trasferito in Israele nel 1973. Già docente di Antropologia presso l’Università Ben Gurion del Negev, oggi è il coordinatore del Comitato Israeliano contro la demolizione delle case dei palestinesi (Icahd), vive a Gerusalemme.

Qual è il rapporto, se c’è, tra antisionismo e antisemitismo?
Innanzitutto vorrei fare una precisazione: non tutta la critica verso Israele è antisionista; sicuramente non è necessariamente antisemitismo, ma non è nemmeno antisionismo.
Bisognerebbe iniziare a guardare a Israele come fosse un paese reale. Proprio questo, tuttavia, per i più, è molto difficile. Israele viene visto innanzitutto come compensazione per l’Olocausto; i cristiani poi lo assumono come un passaggio verso la salvezza divina; molti ebrei, infine, ne fanno una rappresentazione molto idealistica, i kibbutz, Golda Meir, l’esodo… Insomma quasi nessuno lo vede per quello che realmente è. Israele, per tanti versi, è quasi più un’immagine piuttosto che un paese reale.
Eppure all’interno di Israele, se si guarda ad Haaretz o ad altri giornali, c’è una visione molto più lucida e spregiudicata rispetto alla situazione; gli israeliani si riferiscono al proprio paese come a uno Stato a tutti gli effetti; infatti c’è molta più critica, anche rispetto ai magazine più radicali e di sinistra presenti in giro per il mondo. Alcuni articoli pubblicati quotidianamente su Haaretz, in accordo con questa etichetta di nuovo antisemitismo, verrebbero considerati appunto antisemiti, se pubblicati in Italia.
Allora, credo che prima di tutto occorrerebbe dire alla gente di fare ciò che fanno gli israeliani, vale a dire di riferirsi a Israele come a un paese normale, e quindi sentirsi liberi di criticarlo. Io posso criticare Berlusconi senza essere anti-italiano. Siamo nell’ovvietà: non incolperò certo tutti gli italiani per via di un governo che adotta una politica che non condivido. Ma soprattutto penso che questo sia un atteggiamento "sano” anche nei confronti di Israele. Israele è un paese reale.
Tra l’altro, si può porre questa stessa questione in termini sionisti. Uno degli obiettivi del sionismo era di dar vita a un paese "normale”, che sarebbe entrato a far parte della comunità internazionale. Gli ebrei, nel corso della storia, si sono sempre sentiti "fuori”, gli stranieri, gli alieni. Lo stesso Mazzini ha avuto un ruolo importante sul piano ideologico: fu infatti Mazzini a dire che un popolo senza Patria, senza bandiera è il bastardo dell’Umanità. Ebbene, questa divenne una delle direttive ideologiche del sionismo; l’idea che, se il mondo è organizzato in Stati nazionali, allora l’unico modo per gli ebrei di rientrare nella storia umana, trovando un posto nel mondo, è di avere un proprio paese. Ed è significativo che la parola "normale” sia stata usata sin dall’origine e ripetutamente proprio dai sionisti. All’inizio del ‘900, ci fu una rapina a Tel Aviv; ebbene Hayyim Nahman Bialik, uno dei maggiori poeti in Israele, ne gioì: finalmente anche noi avevamo avuto una rapina in banca, come tutti gli altri!
Dunque, lo ripeto, è assolutamente preferibile, per tutti, guardare a Israele come a un paese normale, reale. Questo però significa anche che Israele deve rispettare gli standard dei diritti umani e la legge internazionale. Non può pretendere entrambe le cose. Non può aspirare ad essere un paese normale, a far parte della comunità internazionale e però chiamarsi fuori quando si tratta di rispettare le leggi internazionali, in quanto "speciale”. Dei due l’uno: non puoi essere normale e speciale.
Tu sostieni che questa ambivalenza, tra l’altro, è pericolosa proprio per gli ebrei della diaspora…
Voler rimanere "speciali” è molto pericoloso in generale, ma per gli ebrei in particolare. Certo, se essere speciale significa non applicare la Quarta Convenzione di Ginevra rispetto all’Occupazione, è evidente che c’è una convenienza politica. Ma sul lungo periodo, questo essere speciale può avere anche un effetto boomerang.
Non è un caso che proprio gli ebrei abbiano portato apporti decisivi nella formulazione delle leggi internazionali promulgate negli ultimi 50 anni. Dopo la tragedia della shoah, nessuno più degli ebrei poteva sentire l’urgenza di un antidoto contro quello che era accaduto, che non poteva che essere uno strumento universale, di qui l’impegno per i diritti umani, per le leggi internazionali…
René Samuel Cassin, un ebreo francese, è stato tra i relatori ...[continua]

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