Paolo Onelli è stato Vice Capo di Gabinetto del Ministro della Solidarietà sociale durante il governo Prodi; tra i relatori della Legge 285 del 1997 (Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza), la cosiddetta Legge Turco, oggi è Direttore Generale Tutela delle Condizioni di Lavoro presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Vive a Roma. Quelle che seguono sono considerazioni di carattere personale, che non impegnano il Ministero.

Come nasce e come si sviluppa il tema della “responsabilità sociale” dell’impresa?
Il tutto è nato in seguito al Libro verde dell’Unione Europea, che ormai risale a due anni fa, e ad una decisione dell’Ilo (International Labour Organization), l’agenzia dell’Onu che ha come finalità la promozione, a livello internazionale, della giustizia sociale, del dialogo sociale e dei diritti umani che devono essere rispettati nei rapporti di lavoro. Entrambi i documenti sono stati convergenti nell’indicare alle imprese il tema della social responsibility, ovvero la responsabilità sociale come elemento fondante per la costruzione di un mercato rispettoso delle esigenze dei lavoratori e dei consumatori.
Il processo, poi, ha subito un’accelerazione perché ha raccolto la sfida lanciata dai movimenti contrari alla globalizzazione e alle condotte economiche peggiori adottate verso i mercati dei paesi in via di sviluppo, i teatri meno avanzati dell’economia mondiale. La scommessa è che i comportamenti del sistema delle imprese possano tramutarsi in un agire virtuoso.
Dopodiché in sede europea è nato un dibattito che verte essenzialmente sulla partecipazione -non obbligatoria ma volontaria- delle imprese a questi processi, in seguito al quale si sono predisposti strumenti, come ad esempio Sa 8000 (Social Accountability 8000), in grado di verificare e certificare al sistema degli stakeholders l’adozione, da parte dell’impresa, di determinati codici di comportamento, ad esempio l’impiego di metodologie di produzione rispettose dei diritti dei lavoratori, il rispetto dei diritti e delle pari opportunità delle donne, l’abolizione dello sfruttamento del lavoro minorile, l’evitare di far ricorso a sistemi di produzione inquinanti, ecc. In particolare, il cosiddetto “bilancio sociale” serve ad evidenziare l’impegno sociale assunto dall’impresa, che deve essere quantificabile a livello finanziario, in sede, appunto, di bilancio. Poi le imprese più grandi sono andate oltre a quello che è il semplice rispetto delle norme e sono passate al cosiddetto social committment, cioè a una forma di impegno sociale innovativo, che va al di là del core business dell’impresa e serve a realizzare interventi di natura sociale.
Possiamo citare come esempio la Nike, che ha investito in strutture per l’alfabetizzazione e il ricovero dei bambini e per l’assistenza alle madri, oppure le grandi campagne di Procter&Gamble, che in Italia finanzia “L’ospedale amico dei bambini”, e in Albania strutture per la socializzazione dei bambini e assistenza a livello sanitario. Questi interventi, nati certamente anche come forma di “riparazione” e di make up dell’immagine delle imprese, alla fine hanno funzionato da battistrada per altre esperienze.
Uno dei punti critici di questo assetto resta il fatto che tuttavia è l’impresa stessa a decidere quali interventi promuovere…
Questo dipende da quali priorità e quali politiche di promozione della Csr (Corporate Social responsibility) vengono adottate a livello degli Stati. In questo senso bisogna dare atto al nostro governo di avere posto questa materia tra le priorità del semestre di presidenza italiano dell’Ue, appena concluso. Infatti questo tema, durante il semestre, è stato trattato in una serie di forum e conferenze, sia per quanto riguarda le questioni della certificazione e della volontarietà, sia per quanto concerne il necessario inserimento della Csr all’interno degli strumenti di politica sociale di un paese.
Questo significa, da un lato, che la Csr non può risolvere da sola l’intera questione dell’offerta di servizi e di politiche sociali -questo è evidente; dall’altro, però, quanto più essa si integra con le politiche sociali di un territorio, a livello nazionale, regionale e locale, tanto più conquista valore aggiunto, perché concorre all’offerta globale di servizi e rafforza i suoi rapporti con gli stakeholders dal punto di vista del setting locale. In effetti tutte le buone pratiche che il programma ...[continua]

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