Dina Capozio, Elio Capriolo e Francesca Giardulo fanno parte dell’Associazione degli abitanti di via Giolitti-Esquilino (esquilino@freemail.it).

Com’è nata l’Associazione degli abitanti di via Giolitti?
Dina. Noi siamo nati per salvarci la pelle, perché qui avevamo dei problemi di statica delle case da mettere paura. Avevamo i muri pieni di crepe; colpa delle vibrazioni provocate dal trenino a scartamento ridotto che va a Pantano, periferia sud-est, e dal passaggio degli autobus sulle rotaie. Dopo aver passato una mattina al telefono coi vigili del fuoco, che mi dirottavano sui vigili urbani, che a loro volta mi dicevano che non spettava a loro intervenire, insieme a Marcello Cava abbiamo pensato di costituire l’associazione. Era il 1997 e la situazione all’Esquilino era drammatica: eravamo stretti da una speculazione feroce che mirava al deprezzamento degli immobili; tra gli abitanti non si comunicava minimamente e si stava verificando un pericoloso spostamento a destra, An prendeva ormai il 46% dei voti.
D’altronde l’Esquilino è il rione con la maggior presenza d’immigrati; già da tempo non venivano più fatti investimenti nel commercio o per la trasformazione urbanistica; a quel punto però tutti i malesseri del vivere quotidiano, il traffico, la sporcizia, i marciapiedi, diventavano colpa degli immigrati.
Siamo nati come associazione di strada proprio per far fronte a un malessere legato alla quotidianità delle persone. La questione più evidente è che c’era un gran bisogno d’incontrarsi: alle prime riunioni eravamo tantissimi e nessuno che si conoscesse; io abito qui da 42 anni e per 35 anni non ho conosciuto nessuno della mia strada. E’ stato subito chiaro che non potevamo occuparci solo del traffico; già ai primi incontri infatti si parlava molto delle proprie paure, della sindrome d’assedio per la presenza di tanti immigrati. Se però qualcuno cominciava a dire che i negri sono in un certo modo, o cose del genere, c’era sempre qualcun altro che lo fermava, così poi la volta successiva non si presentava più. Inoltre ci rendevamo conto di vivere in un posto bello, pieno di opere artistiche di valore: Santa Bibiana, i Trofei di Mario, la Porta Magica, il tempio di Minerva Medica. Ci sembrava che questo territorio andasse curato e risanato partendo da quello che c’era e che non veniva valorizzato, come la chiesetta del primo Bernini che sta in via Giolitti, che ha il trenino che le passa proprio davanti. Ecco, noi siamo nati anche sul bello, sull’idea che la cultura è curativa. A pochi mesi dalla fondazione abbiamo fatto una riunione al teatro Brancaccio dove abbiamo messo insieme tutte le tematiche importanti per il rione.
Io era stata in Lotta Continua, poi nei Cobas della scuola; insomma, avevo sempre avuto la mia chiesa, la zona protetta dei miei compagni e delle mie compagne. Era la prima volta che mi trovavo con la gente comune. E’ stata dura, anche perché io ero estremamente politicizzata, quindi appena sentivo un’idea diversa avevo una reazione di diffidenza, quasi una paura di snaturarmi. Poi, invece, ho cominciato a stare zitta e ascoltare, sentivo la loro voglia di capire senza essere indottrinati. Solo allora ho scoperto delle persone buone, che pur essendo diverse da me per storia, cultura e formazione, avevano un sacco di cose da dire. I loro valori, le cose che facevano; la voglia di capire gli altri e di non assecondare derive razziste era fortissima. L’Esquilino, insomma, è un posto democratico. Quando sono andata con la casalinga sessantenne a dare i volantini a piazza Vittorio, per lei era la prima volta eppure la gente li prendeva più da lei che da me, perché Giovanna era più credibile, glieli levavano dalle mani. Era con noi anche la volta del blitz nella sede locale dei Ds, quando parlava la Melandri. Quelli parlavano e basta, così avevamo deciso di presentarci in cinque o sei coi campanacci e i bollettini dell’associazione. Bisognava spezzare il rituale. E’ durato tre minuti, poi siamo usciti e siamo andati a casa di Giovanna a brindare; lei ci ha detto che non si era mai divertita tanto, rideva come una pazza. Comunque poi non è cambiato niente, non è che hanno imparato la lezione, andavano ai girotondi, ma non capivano il campanaccio. Del resto anche i miei compagni dei Cobas ci hanno messo un po’ a capire; per loro avrei dovuto subito fare manifestazioni per far avere il permesso di soggiorno a tutti; non si rendevano conto che il lavoro più grosso, in quella fase, ...[continua]

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