Peppe Marmo, 53 anni, è insegnante di educazione fisica e ha fatto parte della squadra nazionale di judo; dal 1972 dirige il centro sportivo Kodokan di Napoli.

Io ero un atleta, anche se la mia attività sportiva è iniziata in un centro riservato a orfani e ragazzi irrequieti. Ci ero finito perché, morto mio padre, mi ero trovato un po’ sbandato e, come spesso succede a quell’età, avevo commesso delle sciocchezze, in particolare avevo avuto la sfortuna di provocare un’insegnante che era la moglie di un giudice e così avevano deciso di mandarmi in questa casa di correzione.
I primi tre anni a San Marco di Castellabate furono terribili, non c’era né nome né cognome, io ero il numero 11; eravamo più di 400 ragazzi e valeva la legge del più forte, di chi aveva il coltello in tasca. Dopo tre anni fui mandato a Napoli. Il nuovo istituto era bellissimo, talmente bello che io me ne sono scappato tre o quattro volte, sono evaso, perché volevo vedere se era proprio vero che adesso stavo in un posto dove mi chiamavano per nome e dove c’erano degli educatori che si interessavano a me, e poi una mensa dove si mangiava sul serio senza doverlo rubare agli altri. Nell’altro collegio, infatti, un po’ per il fatto che eravamo troppi e non si riusciva a cucinare per tanti, un po’ perché c’erano ragazzi dai 5 ai 21 anni, mangiava solo il più forte.
Quando entrai avevo 11 anni, resistetti bene perché sin dal primo giorno feci alleanza con un altro ragazzo, perciò eravamo in due a difenderci; anche dopo siamo rimasti sempre insieme, trasferiti insieme a Napoli, insieme campioni di judo e poi istruttori; io ho battezzato i suoi figli e lui i miei.
Tornando agli anni del collegio, a Napoli ci sembrava di rivivere, innanzitutto non eravamo più 60 per camera, ma 15; poi c’era un educatore ogni 15 ragazzi e non vigeva più la legge del più anziano; avevamo le aule per studiare oppure ci mandavano a lavorare, insomma, eravamo considerati delle persone. Noi però eravamo abituati alla legge della giungla, quindi c’erano continuamente risse e il medico era costretto a intervenire continuamente perché si finiva quasi sempre a colpi di temperino. Nel collegio di Napoli, infatti, confluivano ragazzi da molti collegi del circondario e quindi all’inizio si doveva comunque stabilire chi comandava. Il dottore allora, che era campione italiano di judo, pensò di disciplinare la nostra aggressività facendoci fare judo. Ricordo che tutti, dal direttore agli educatori, si spaventarono, perché eravamo a metà degli anni ’60, le arti marziali erano ancora poco conosciute in Italia e loro temevano che ci saremmo ammazzati fra di noi. L’argomento che alla fine li convinse fu che attraverso il judo avremmo imparato a rispettare le regole.
L’idea del dottor Papi ebbe un grandissimo successo: dopo due anni due di noi diventarono campioni d’Italia; tre anni dopo furono cinque o sei e andammo in nazionale. Per noi allora il judo era né più né meno che fare la lotta. Ricordo che la prima volta che siamo scesi sul tappeto per combattere abbiamo preso questo povero medico e gli siamo saltati addosso, non è che l’abbiamo riempito di botte, ma maltrattato sì; lui allora, spaventato da questa furia, decise di sistemarci chiamando come maestro Nicola Tempesta, uno dei più grandi campioni della storia del judo, un uomo alto due metri per 120 chili. Tempesta ci spazzava via tutti in pochi minuti terrorizzandoci con la sua tecnica e la sua abilità; in questo modo ci mise in riga. Ebbe poi la lungimiranza di capire che poteva sfruttare la nostra grande rabbia per tirarne fuori dei campioni.
Due di noi furono nell’elenco dei convocabili per le olimpiadi di Monaco del ’72, io e un altro, poi non ci andammo anche in seguito alla tensione seguita all’attentato di Settembre Nero contro la squadra di Israele. Però la convocazione servì a creare entusiasmo intorno a questa disciplina intesa come sport educativo. Infatti avevamo avuto dei risultati eccezionali anche sotto il profilo scolastico, perché se non studiavamo non potevamo fare judo e per noi fare judo significava poter uscire, girare l’Italia per fare le gare.
Dal collegio si usciva operai specializzati, ma a noi non bastava, ci eravamo resi conto che non potevamo essere dei campioni ignoranti e così, studiando la sera, in molti ci siamo diplomati all’Isef; alcuni invece hanno preso la laurea in psicologia e in pedagogia.
La cosa bella è che quando uscivamo per Napoli invitati nelle varie scuo ...[continua]

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