Luca Lambertini, 26 anni, fa parte del “nucleo redazionale” de Lo Straniero, rivista diretta da Goffredo Fofi. E’ attivo nel settore delle cooperative sociali a Bologna e si occupa della storia del lavoro sociale in Italia dal dopoguerra ad oggi.

La storia del lavoro sociale nel nostro paese, a partire dall’immediato dopoguerra, è riconducibile a una galassia di piccoli gruppi ‘eretici’ che si conoscevano, avevano contatti tra di loro e operavano in alcune situazioni congiuntamente. Una vicenda che per molti versi è ancora da studiare...
E’ una vicenda ancora da indagare in quanto, sia nell’ambito della produzione storiografica che nel mondo del lavoro sociale, queste esperienze sono per buona parte ignorate. Io stesso nelle mie ricerche, quando non ho avuto la fortuna di incontrare dei testimoni diretti di quelle esperienze, ho faticato molto a trovare riferimenti bibliografici o indicazioni di fondi archivistici.
Uno degli ambiti da me studiati è quello della travagliata nascita in Italia di un moderno Servizio Sociale. La figura dell’assistente sociale arriva in Italia nella seconda metà degli anni Quaranta, attraverso l’importazione delle più moderne tecniche assistenziali maturate nel mondo anglosassone. Sia gli Stati Uniti del New Deal che l’Inghilterra del Piano Beveridge erano infatti all’avanguardia in questo settore. In Italia, al contrario, la figura dell’assistente sociale risultava una novità quasi rivoluzionaria rispetto al panorama nazionale. Il fascismo aveva infatti compartimentato e settorializzato l’intera società in categorie ben precise, a ognuna delle quali corrispondeva un ente assistenziale di riferimento: quello per i Mutilati, quello per gli Invalidi di guerra, quello per la Gente di mare, ecc. Un’infinità di enti pubblici, di apparati burocratici, centralizzati, elefantiaci, che andavano a formare un quadro tanto complesso quanto inefficiente.
Spesso chi doveva accedere agli interventi assistenziali non aveva i mezzi culturali per orientarsi in quell’universo burocratico -studi recenti parlano infatti di circa quarantamila enti che fornivano prestazioni assistenziali. La figura dell’assistente sociale era innovativa proprio perché si focalizzava sui bisogni della persona nella loro interezza e complessità, senza il vincolo di canoni rigidamente fissati a livello centrale. L’obbiettivo era quello di porre il “bisognoso” in condizioni tali da non dover più necessitare di aiuti esterni. L’idea era quella di responsabilizzare l’assistito, evitando di creare situazioni di cronicizzazione dei bisogni.
Quali sono queste tecniche? E chi le promosse in Italia?
Si tratta principalmente di tre modalità: il casework, cioè il lavoro sul caso individuale, il groupwork, ovverosia il lavoro sul gruppo di riferimento (ad esempio il gruppo familiare), fino al community work, il lavoro di comunità. Io in particolare mi sono occupato di quest’ultima modalità d’intervento.
Fondamentali per l’affermarsi del servizio sociale furono le scuole che nacquero numerose in Italia fin dall’immediato dopoguerra. Una delle più importanti fu il Cepas (Centro Educazione Professionale per Assistenti Sociali), fondata dai coniugi Calogero che in questa scuola fecero confluire la loro idea di radicale rinnovamento dello Stato, basato su una nuova idea di cittadinanza. Alla base c’era il convincimento che la creazione di una democrazia compiuta dovesse passare anche attraverso un’idea nuova del lavoro sociale e dell’intervento assistenziale, strumenti fondamentali di educazione alla democrazia e al senso civico.
Guido Calogero era un filosofo piuttosto noto e tra i suoi punti di riferimento c’era John Dewey, importante figura della cultura progressista americana. All’inizio degli anni Quaranta, con Aldo Capitini, Calogero aveva fondato il liberalsocialismo. I coniugi Calogero dovettero anche affrontare un periodo di confino a Scanno, in Abruzzo, dove conobbero da vicino la condizione dei “contadini di Silone”. Queste, e tante altre esperienze, influenzarono profondamente l’impostazione e l’attività della scuola.
Il Cepas venne finanziato da Adriano Olivetti. Vale la pena ricordare che Olivetti, nel 1946, pubblicò L’ordine politico delle comunità, dove teorizzava una nuova struttura dello Stato italiano, caratterizzata da un radicale federalismo. Olivetti è un altro grande personaggio, riscoperto solo di recente dalla storiografia, dopo anni di accantonamento. E’ soprattutto studiato per la sua ope ...[continua]

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