Silvia degli Alberti Marsoni, già ricercatrice all’Istituto Mario Negri di Milano, è direttrice del Sendo (Southern Europe New Drug Organization). Negli anni ‘90, eletta al consiglio provinciale per la lista dei Democratici di sinistra, è stata Presidente della Provincia di Biella per una legislatura.

Sono nata e vissuta fino ai 12 anni a Venezia perché mio padre, Paolo, era di famiglia veneziana. Dopo ci siamo trasferiti per un breve periodo a Biella, la città di mia madre Selina Sella, poi a Milano, dove ho fatto liceo ed università. Ho avuto un’educazione molto libera, inconsueta per una famiglia borghese come la mia. Mio padre aveva una cartiera a Treviso, che era stata impiantata da suo nonno, e mia madre viene da una vecchia famiglia biellese. Ho cominciato a vivere da sola a 17 anni quando mia madre andò con Alvise, mio fratello minore, a Londra, al Tavistock Institute, per specializzarsi come psicanalista.
Io invece, nella temperie sessantottesca dei primi anni Settanta, ero coinvolta nella giovanile speranza della rivoluzione e non lasciai Milano. Al terzo anno di medicina alla Statale, iniziò la mia carriera. Avvenne per caso, grazie a un occasionale colloquio per ottenere una borsa di studio all’Istituto Mario Negri. Un posto straordinario, diverso in tutto dall’università. Mi laureai con una tesi sul cancro del polmone e, secondo la consuetudine dell’Istituto, andai a specializzarmi all’estero. Vinsi una Fogarty Fellowship al National Cancer Institute (Nci) di Bethesda negli USA. Quello di Bethesda è un campus meraviglioso, allora di circa 3000 persone, nel Maryland, vicino al Navy Hospital. Approdata nel ’79, vi rimasi sette anni perché dopo il primo anno mi assunsero. Capita spesso agli italiani sopravvissuti alle università italiane.
Cominciava allora l’epoca della biologia molecolare. Il mio interesse per la ricerca lo devo prima di tutto a mio nonno, Massimo Sella, uno scienziato in una famiglia di lanieri e di banchieri. Dirigeva il Regio Istituto di Ittiologia Marina, già a Rovigno e dopo la guerra a Venezia, dove mia madre, orfana di madre, conoscerà mio padre. Studioso versatilissimo, personalità eclettica, fotografo, musicologo ed eccellente pianista, mi raccontava storie fantastiche ed emozionanti. Mi stimolò ad essere curiosa e accese il mio interesse a capire il mondo nella sua complessità, a cercare i nessi tra cause ed effetti, mi diede il gusto per una visione epidemiologica del mondo. Di carattere però io sono un “meccanico”, preferisco “sporcarmi” nei dati piuttosto che elaborare teorie. E questo mi ha creato non pochi problemi perché ho sempre lavorato in ambienti dove gli studi teorici erano più apprezzati. Questa contraddizione mi ha tormentato a lungo finché un amico, che fa il fisico teorico, mi ha fatto notare che se i fisici teorici immaginano le cose sono i fisici pratici che le sperimentano e dimostrano se sono vere. Sono attitudini complementari di uguale dignità.
Nell’85 ritornai al Negri. Mi ero lasciata convincere da un collega che dovevamo applicare in Italia quello che avevamo imparato. Sono stata un cervello in fuga tornato ante litteram.
Mi sono sempre occupata di un settore di nicchia della farmacologia, il drug development un campo di ricerca a cavallo tra preclinica e clinica. Il drug development è il percorso che si deve compiere per trasformare una molecola in un farmaco: partendo da un universo di molecole praticamente infinito e con dei sistemi empirici di screening, come dire che con un imbuto man mano più rastremato, selezioni una serie di molecole che speri possano essere attive. Un percorso affascinante. Tornai convinta di lavorare in quel settore perché il Negri era una delle stazioni di screening del National Institute of Cancer. Fu presto chiaro che era impossibile perché presupponeva un’organizzazione della ricerca clinica che in quegli anni semplicemente in Italia non esisteva né negli ospedali né nelle università.
Avrei potuto e forse dovuto ritornarmene in America, ma nel frattempo avevo incontrato Francesco, che poi è diventato mio marito, e così restai e mi adattai alla sorte. Se per fare il mio lavoro c’era bisogno di gruppi clinici specializzati in un certo modo e i gruppi non c’erano, non restava altro che... farli. Ci misi 15 anni .

Nel frattempo mi occupai di studi clinici low-tech -a bassa tecnologia- e di meta-analisi. L’incontro con Richard Peto fu determinante per orientarmi in questo campo. Il contributo p ...[continua]

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