Israel Harel, editorialista di Haaretz, è stato uno dei fondatori di Gush Emunim (Blocco della fede), movimento nato all’indomani della Guerra dei Sei Giorni. Già a capo del Consiglio delle comunità ebraiche di Giudea, Samaria e Gaza, oggi vive a Ofra, nel West Bank, un insediamento di circa 2000 persone, fondato nel 1975.

Ofra è stata la prima colonia del movimento Gush Emunim e il primo insediamento a Nord di Gerusalemme, in Samaria. La Samaria riveste un ruolo fondamentale nella storia ebraica: vi si trovano molti dei luoghi che appartengono alla nostra tradizione. Ofra stesso è un nome citato nel Libro dei Giudici. Ma anche altri villaggi qui intorno: Migron, Michmas ecc., hanno mantenuto il loro nome nel corso della storia.
Dopo il 1967, molti di noi sentirono il dovere di colonizzare i luoghi che, per come la vedevamo noi, erano stati “liberati” durante la Guerra dei Sei Giorni. Shilo, circa dieci miglia a Nord, per trecento anni fu sede del Tempio prima che questo fosse costruito a Gerusalemme, ma poi c’erano Hebron, l’antica capitale, e molti altri luoghi. Insomma, sentivamo che, per noi ebrei, un sogno lungo migliaia di anni si stava realizzando.

I primi arrivarono qui nel 1975. Ofra era un luogo particolarmente adatto all’insediamento perché c’è un campo militare dell’esercito israeliano. Secondo la Convenzione di Ginevra, la forza occupante può utilizzare le strutture dell’esercito già presenti. Questa era la via legale per concretizzare i nostri sogni e per colonizzare queste aree. A Shilo, qui accanto, c’era solo un sito archeologico e niente di più. Più tardi, però, un altro gruppo costituì una colonia anche lì, così avevamo due insediamenti.
L’inizio quindi è stato nel 1975, festeggeremo il trentesimo anniversario quest’estate.
Io arrivai con la mia famiglia un anno dopo, nell’estate del 1976, da Petah Tikva, una cittadina ormai divenuta un sobborgo di Tel Aviv. Mia moglie, al tempo, già insegnava all’Università di Bar-Ilan. Anch’io andavo nella stessa università e allo stesso tempo scrivevo sul giornale Maariv, allora il più influente fra i giornali israeliani, un po’ come oggi Ha’aretz. Lavoravo come direttore del supplemento settimanale e questo mi garantiva la possibilità di continuare a frequentare l’università.
I genitori di mia moglie erano arrivati qui all’inizio del XIX secolo, erano alunni della scuola rabbinica di AhGra, una grande scuola rabbinica in Lituania, considerati tra i primi ad aver fatto ritorno nella terra di Sion. Lei discende da loro sia da parte materna che paterna. Anche i miei antenati sono arrivati in Israele molto tempo fa, però un po’ dopo quelli di mia moglie. I miei genitori si sono incontrati e sposati in questo paese.
Io sono cresciuto ad Haifa. Mio padre, essendo un religioso, non aveva la tessera di partito e così i socialisti che governavano il Paese prima dell’indipendenza lo fecero licenziare dal miglior posto di lavoro che ci fosse ad Haifa, il porto. Volevano che cambiasse la sua tessera blu in tessera rossa; io stesso da giovane sono stato picchiato dalle squadracce di Haifa.
A volte mi chiedo se il fatto che oggi sia un religioso e viva dove vivo, non sia una reazione a quello che ho subito.

Allora eravamo tutti fra i venti e i trent’anni, molti anche ben avviati nel mondo del lavoro o comunque già laureati, alcuni avevano lasciato i propri kibbutz o moshav; era gente che voleva partecipare alla nuova avventura, che non intendeva semplicemente seguire i “padri fondatori”, ma che desiderava essa stessa essere fondatrice di qualcosa di nuovo e protagonista di gesti concreti.
All’inizio eravamo una dozzina di famiglie, oggi siamo circa cinquecento famiglie con una grande scuola superiore, una sorta di college; molte persone lavorano a Gerusalemme, alcune a Tel Aviv, o nella zona circostante. Qui la percentuale di giovani con istruzione universitaria è superiore alla media israeliana, che già vanta una delle percentuali più alte al mondo. Non dispongo di dati esatti, però direi che circa un terzo (se non addirittura di più) della popolazione lavora nell’educazione, dagli asili nido fino all’università. E’ stata una fortuna che sia andata così: quando sono arrivato qui non volevano accettarmi perché ero un accademico e un giornalista. Dicevano che mi sarei dovuto dedicare al lavoro agricolo o metallurgico e lasciar perdere le mie altre occupazioni.
Era questo l’ideale dei primi coloni. Ma qui non c’è terra da coltivare ...[continua]

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