Gemma Martino è Direttore Scientifico di Metis, Centro Studi in Oncologia Formazione e Terapia, Milano. Ha lavorato all’Istituto dei Tumori, ricoprendo il ruolo di direttore di Divisione. Si occupa della qualità di vita delle persone con tumore e della formazione degli operatori sanitari “per il loro ben-fare e il loro ben-essere”.

Può darci un quadro dell’informazione sanitaria e della vostra attività?
Potremmo definire la nostra attività sanitaria una militanza, che si organizza per aiutare le persone in crisi e rimane con i pori aperti della sensibilità e dell’intelletto per modificare i comportamenti della salute e della malattia e la cultura intorno a essa.
Nel campo dei tumori, infatti, non sempre si è proceduto con grazia.
L’immagine che diamo del cancro è che -se preso in tempo- lo possiamo curare. Come terapeuti siamo pronti all’azione e nel linguaggio usiamo ancora metafore di guerra che danno corpo alle nostre paure di avere nemici che attentano all’invulnerabilità: battaglie che si combattono, tumori che si bombardano, esplosioni che si prevengono, arruolamenti per lo screening. Una persona che ha ricevuto una diagnosi di tumore difficilmente fa sue queste metafore guerriere… piuttosto si prefigura immagini più naturali, più geologiche -all’atto della diagnosi è stato come un “terremoto” all’interno, un “sovvertimento”, una “tempesta inattesa”- che arrivano dal profondo dell’anima. Un bisogno di ripararsi e capire prima di agire. L’uso dei simboli e del linguaggio espressi nella varie fasi di prevenzione, diagnosi e cura dei tumori la dice lunga sui diversi tempi e modi di pensare, agire, comunicare tra terapeuti e utenti/pazienti.
Un esempio alla portata di tutti è quanto s’è mosso ed è stato promosso nel campo dei tumori al seno. Qui un uomo carismatico con grandi capacità organizzative e relazionali, Umberto Veronesi, seguito da un gruppo di medici attivi e fedeli, ha impostato ricerche cliniche, creato movimenti di opinione, mobilitato il Parlamento. Del cancro al seno ne parlano quotidiani, settimanali, mensili, le radio e le televisioni, politici e politiche. Per attivare le donne a sottoporsi a indagini strumentali come mammografia ed ecografia, e cercare tumori in fase iniziale che permettono di usufruire di trattamenti chirurgici più conservativi del seno e di ottenere dalle terapie complementari (radio e chemioterapie) oltre che maggiori successi di guarigione, molto materiale informativo gira negli ambulatori, nei negozi, nei mezzi di trasporto. Grazie a questa eccessiva informazione di massa che illumina sui progressi della tecnologia medica oggi si parla in maniera diversa di “noduli” mammari. Così, tuttavia, le donne mobilitate a partecipare agli screening sono portate a pensare che il tumore al seno sia la loro malattia preponderante, dalla quale guariscono se si sottopongono alle indagini richieste. In questa fase sanitaria pochi si preoccupano di quanto denaro si spende per mobilitare tante donne per diagnosticare precocemente il cancro in alcune di esse, di quali siano i loro disagi, le loro aspettative nell’accogliere l’invito a presentarsi nei centri di screening. Tra diecimila donne sottoposte a mammografia -se tutto va bene, se il sistema funziona bene, se le mammografie sono fatte bene, se i tecnici le sanno leggere correttamente- scopriremo cento donne con tumore, che nessuno aveva diagnosticato prima, a altre 400 a cui chiederemo di sottoporsi a un iter diagnostico più approfondito (ecografie, biopsie) per avere la sicurezza che il sospetto di cancro fosse fasullo. Le cento donne con cancro accertato potranno usufruire di interventi conservativi, settanta di loro guariranno. Il messaggio occulto che diamo è che se arriviamo tardivamente alla diagnosi moriamo… Ma già 50 anni fa, senza diagnosi precoce, almeno la metà delle donne con tumore al seno viveva a lungo, anche se con esiti devastanti da chirurgia, radio e chemioterapia. Oggi queste terapie non comportano più mutilazioni ed effetti collaterali insopportabili, quindi parliamo di esiti e disagi diversi, ma l’efficacia è la stessa di 50 anni fa. E le donne di oggi non sono da meno delle loro madri e delle loro nonne nel mettere in campo le loro risorse di guarigione…
Lei quindi mette in discussione lo screening?
Io dico che continuare a proporre lo screening nelle modalità messe finora in atto non è più corretto: si può sfruttare meglio la mobilizzazione delle donne per interagire con loro, val ...[continua]

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