Stefano Laffi è ricercatore per l’Agenzia milanese di ricerca sociale Codici (www.codiciricerche.it) e collaboratore della rivista “Lo straniero”. Tra le sue pubblicazioni Il furto - mercificazione dell’età giovanile, edizioni l’ancora del Mediterraneo, Napoli.

Dalle tue ricerche sugli inserimenti lavorativi in Lombardia e la situazione di precariato nella fascia che va dai 25 ai 35 anni emerge una notevole disponibilità nei confronti della flessibilità.
Sì, soprattutto tra i 25 e i 30 anni molti non sognano assolutamente il posto fisso, almeno qui al Nord, vuoi perché hanno la percezione di poter cambiare facilmente trovando nuovi impieghi, oppure perché sono cresciuti senza nemmeno poter coltivare l’idea del posto fisso. Spesso, nel corso di queste interviste, ragazzi e ragazze raccontano di aver rifiutato l’offerta di un posto garantito in enti pubblici, preferendo contratti da rinnovare che permettono maggior autonomia rispetto agli orari e ai compiti, magari a parità di soldi, ma senza le tutele. Solo le donne dopo i 35 anni hanno un atteggiamento differente, perché per loro cominciano a pesare una serie di difficoltà note, ad esempio il fatto che con un contratto annuale non è possibile ottenere un mutuo e che la maternità è più faticosa con un lavoro flessibile. Questi infatti sono impieghi dove si lavora tanto dal momento che si opera su progetti e i progetti comportano impegni stringenti, per le scadenze previste, senza deroghe. Per esempio, quando si candida un progetto spesso si lavora di giorno, di sera e persino di notte a ridosso delle scadenze: qui il vero scandalo non è lo sforamento sistematico delle otto ore giornaliere, ma quel fenomeno assurdo e completamente sommerso generato dal sistema dei bandi e dalla restrizione di risorse, il lavoro a vuoto, cioè quello svolto e mai retribuito per le miriadi di progetti finiti nel nulla, nel tentativo di accedere a finanziamenti pubblici o comunitari e nella speranza di gare vere, senza cooptazioni già concordate.
Il lavoro per progetti è stata però un’innovazione importante nella pubblica amministrazione rispetto agli schemi di routine precedenti...
E’ vero, ma il problema oggi è che un intero mercato del lavoro basato su progetti non può funzionare, perché ci sono alcune funzioni che non hanno il ciclo di vita di un progetto, altre non hanno quella curva produttiva, altre ancora non consentono di vedere già in partenza il fotofinish del traguardo. Penso al settore della prevenzione della tossicodipendenza o a quello degli interventi educativi fatti in gran parte di progetti finanziati di anno in anno: lavorando sui tempi brevi delle rendicontazioni annuali o semestrali in molti casi allo scadere del tempo non è ancora successo nulla, i risultati non sono visibili, quindi è un lavoro cieco rispetto al suo senso, in ostaggio dei meccanismi burocratico-amministrativi di controllo che chiedono indicatori di successo allo scoccare della mezzanotte. Ma dietro c’è anche il problema del consenso politico, ovvero il progetto scritto come certificazione preventiva di un successo, garantito a monte, una fantasia prometeica figlia di una cultura che vuole ordinare il mondo, controllare il rischio e negare il destino, prestata dal mondo aziendale per contrastare l’eccesso opposto, che era la casualità delle scelte, l’umoralità della politica o la routine degli uffici. Perché è pur vero che alcune pubbliche amministrazioni funzionavano male ed erano incapaci di arrivare a qualunque risultato, “morivano di processi”, cioè riunioni, discussioni, tavoli, elaborazioni… Ma ora siamo all’eccesso opposto, alla schizofrenia del sistema: alle routine dei lavoratori interni si contrappone una massa di lavoro degli esterni - quella forza di lavoro fra i 25 e i 35 anni di cui si diceva- interamente sotto lo schema pseudointelligente del progetto. Qui si consumano enormi scarti di lavoro perché per un progetto che passa ce ne sono almeno altri 10, per non dire 20 o 50, che non passano. Il tutto genera un dispiego enorme di energie di giovani diplomati e laureati che scrivono, pensano e provano a immaginare cosa fare, riuscendone a realizzarne solo un’infima parte, quindi senza capitalizzare un’esperienza di intervento che non sia proprio quella degli escamotage di progettazione. Questo è ciò che si verifica nel terziario avanzato delle consulenze alle imprese, così come in quello del welfare, perché moltissimi interventi in campo sociale oggi vivono di fin ...[continua]

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