una città 312 mensile di interviste luglio-agosto 2025 - euro 8
una città 2 Dedichiamo la copertina, a colori quando le cose vanno malissimo, al martoriato popolo palestinese. La “soluzione armena” è iniziata? Hitler ai suoi, perplessi per le reazioni nel mondo che avrebbe provocato la persecuzione degli ebrei, disse di non preoccuparsi, che nessuno, a suo tempo, s’era preoccupato degli armeni. Cosa faremo noi? Qui riportiamo la lettera dell’amico Rimmon da Gerusalemme, intitolata “La forza sola non dà speranza”. Le manifestazioni di massa in tutta Israele chiedono di terminare la guerra per liberare i cinquanta ostaggi israeliani, vivi, moribondi o morti, tenuti in condizioni crudeli da quasi due anni dai terroristi a Gaza. Partecipo alle manifestazioni assieme ai gruppi più radicali; noi siamo contro la guerra, anche per la tragedia spaventosa a cui è sottoposta la popolazione palestinese nella striscia di Gaza: i trasferimenti forzati proposti; le distruzioni sistematiche; l’eccidio indifferenziato di più di sessantamila civili, tra cui quasi ventimila bambini; lo sfollamento continuo e ripetuto di centinaia di migliaia di persone affamate, pigiate in zone “sicure” ma colpite “per sbaglio o come danni accidentali”, anche se in coda per ottenere cibo, o assieme a giornalisti o paramedici che accorrono in aiuto. Ci opponiamo anche alla violenza aumentata in Cisgiordania: espulsione di comunità intere sotto minacce e incursioni; espropriazione di terre; attacchi continui, veri pogrom di teppisti ebrei armati, difesi dall’esercito, quando non attaccano persino i soldati stessi. Noi pensiamo che le cause prime della situazione, apparentemente insolubile, siano il fanatismo intransigente di Hamas da una parte e il suprematismo ebraico dall’altra, che vogliono entrambi il dominio esclusivo in tutta la Terra Santa, convinti ciascuno che con la forza, e solo con essa, si possa “vincere” il nemico. I termini dell’accordo che ora forse stanno maturando sono simili a quello che sarebbe potuto avvenire subito dopo l’attacco del 7 ottobre e prima della disastrosa guerra di vendetta, sotto l’egida della coalizione internazionale, inclusi i paesi arabi che temono il terrorismo fanatico: coalizione che si è smembrata subito a causa della violenta reazione israeliana. Molti governi e popoli sono ora contro Israele, e c’è un grave rigurgito del peggiore antisemitismo. Appunto perciò non sappiamo che cosa possa esercitare maggiore pressione sul governo israeliano o su Hamas per ottenere un accordo di tregua: queste manifestazioni o le minacce di conquista totale della Striscia. Per ora, del resto, ciò che è rimasto del terrorismo micidiale e sanguinario di Hamas ricorda un’eroica resistenza partigiana. Mentre le minacce israeliane di conquistare anche la città stessa di Gaza, per rimanerci poi impantanati, dovrebbero spaventare noi stessi, israeliani, eredi del genocidio degli ebrei. La spaventosa tragedia nella Striscia di Gaza dovrebbe ricordarci il genocidio che precedette l’Olocausto: la micidiale marcia forzata degli armeni durante la Prima guerra mondiale, anche senza campi di sterminio. Invece l’euforia in Israele dello scorso maggio, dopo l’attacco al progetto nucleare dell’Iran, ricorda gli album della vittoria lampo nel Sinai del 1956 e quelli della guerra dei sei giorni del 1967. Entrambe vittorie di Pirro, anche se la seconda era riuscita a sciogliere l’angoscia della minaccia concordata da tre stati arabi su tre fronti contemporanei. Ma Israele, ebbra dell’impero conquistato in sei giorni, non seppe sormontare il rifiuto totale di pace e di trattativa degli stati arabi a Khartum né liberarsi dalla maledizione coloniale appena acquistata. Conquiste territoriali ed euforia che si svilupparono in questi cinquantotto anni in messianesimo, suprematismo e nazionalismo imperialistico. Questi, infatti, sono riusciti a far crollare tutti i tentativi di apertura a un futuro diverso: ricordo qui le proposte di Sadat attraverso Kissinger prima della guerra dell’ottobre 1973, il processo di Oslo degli anni 1992-’95 e la proposta saudita e della Lega Araba del 2002, a cui Israele non ha mai reagito. Ci sarebbe stata, ci sarebbe ancora una via diversa? Nel Medio Oriente, dicono, solo la forza può salvarci, noi piccola minoranza di otto milioni in un fazzoletto di terra. Non sosommario In copertina Masafer Yatta, Palestina La forza sola non dà speranza di Rimmon Lavi (p. 2) Fame, sete e pallottole di David Calef (p. 4) Siamo ancora qui La volontà dei palestinesi di restare intervista a una volontaria in Palestina Noi nipoti... Sulla resistenza nonviolenta in Palestina intervista a Sameeha Hureini (p. 12) Restituimmo la chiave Il gesto straordinario di Genya e Henryk Kowalski. Di Alan Confino (p. 15) “Ucraina è Ucraina!” Lo shock del futuro e la Russia intervista ad Anna Zafesova (p. 22) Cosa significa pace per gli ucraini di Oleksandra Matviichuk (p. 27) One more cup of coffee Un ricordo di Luca Rastello intervista ad Andrea Oskari Rossini (p. 28) Nel gruppo puoi anche piangere Una buona pratica sui disturbi alimentari intervista ad Antonella Cornale (p. 31) Una fede concreta Per una chiesa “gentile” intervista a padre Benito Fusco (p. 35) Simone Weil filosofo inascoltato di Alfonso Berardinelli (p. 40) Primo Levi e Sandro Delmastro. Tra storia e letteratura di Michele Battini (p. 41) Anziani: ritorno al lavoro? di Massimo Livi Bacci (p. 42) Uno sguardo al Vietnam di oggi di Rimmon Lavi (p. 43) Libertà e diritti di Vicky Franzinetti (p. 44) La terra dei princìpi di Belona Greenwood (p. 45) Una cartolina di Srebrenica Un’associazione impegnata per la memoria Dopo la morte di mio fratello... (in ultima) luglio-agosto 2025 Redazione “una città” via Duca Valentino 11, 47121 Forlì tel. 0543/21422 unacitta@unacitta.org È così che la massa degli uomini serve lo Stato, non come uomini coraggiosi ma come macchine, con il loro corpo [...]. Nella maggioranza dei casi non c'è nessun libero esercizio del giudizio e del senso morale [...]. Suppongo che se facessimo degli uomini di legno sarebbero altrettanto utili [...]. E tuttavia, normalmente, quegli uomini sono considerati buoni cittadini. Altri -come la maggioranza dei legislatori, dei politicanti, degli avvocati, dei preti e dei tenutari di cariche- servono lo Stato soprattutto in base a ragionamenti astratti; e poiché fanno assai di rado distinzioni morali, hanno la stessa probabilità di servire Dio che, senza volerlo, di servire il diavolo. Pochissimi -gli eroi, i patrioti, i martiri, i riformatori in senso ampio e gli uomini- servono lo Stato anche con la loro coscienza: e così, nella maggior parte e di necessità, si oppongono al governo che di solito li considera nemici. Una persona saggia servirà solo come uomo e non si sottometterà a essere “creta” [...], lascerà quell’incarico alla propria polvere, perlomeno. Henry David Thoreau, Disobbedienza civile, 1849 Rotocalco culturale. Anno XXXV, Dir. resp. Giuseppe Ramina. Aut. Trib. di Forlì n. 3/91 del 18/2/91. Stampa: Grafiche Baroncini Srl, via Ugo la Malfa, 48, Imola. Redaz. e amministraz.: via Duca Valentino n.11, Forlì. Poste Italiane SpA - Sped. in A. P. D.L. 353/2003 (conv. in L.27/02/04 n.46) Art. 1 c.1 CN/FC, n. 312/2025 - Tassa pagata.
no pacifista e comprendo la necessità di assicurare la sicurezza dei cittadini contro il terrore e alle frontiere (crollate purtroppo nell’ottobre di due anni fa). Ma credo che non abbiamo veramente cercato le possibilità diplomatiche e politiche per cambiare la situazione geopolitica e ridurre le ragioni dell’odio popolare tra gli arabi e i musulmani, su cui germoglia il terrore. La pace con l’Egitto, grazie al coraggio di Sadat e Begin, avrebbe potuto essere un ponte per procedere a un’integrazione progressiva dello Stato degli ebrei nel Medio Oriente. Mubarak, il successore di Sadat, ha per anni chiesto a Israele di continuare il processo, riducendo la minaccia (nucleare?) non convenzionale agli occhi dei vicini d’Israele e aprendo un possibile futuro per i palestinesi. Rabin fu convinto, pur reticente, alle trattative di Oslo coi palestinesi, che permisero la pace con la Giordania di Hussein, ma fu assassinato da un fanatico ebreo, come Sadat da fanatici islamisti. Il processo di pacificazione fu bloccato dal terrore degli estremisti ebrei e arabi e dall’espansione delle colonie ebraiche in Cisgiordania e nella striscia di Gaza. Queste ultime furono abbandonate nel 2003 da “Arik” Sharon, con decisione unilaterale e senza accordo coi palestinesi, chiudendo così due milioni e più di palestinesi, per lo più profughi già dal 1948, in quei 350 chilometri quadrati divenuti la più grande prigione all’aria aperta, dominata da terroristi fanatici e integralisti. Oltre alla perdurante pace fredda con l’Egitto e la Giordania, ci esaltiamo degli accordi di Abramo, promossi dalla precedente amministrazione Trump, con regimi monarchici non limitrofi, con cui ci sono interessi comuni, economici, militari e di intelligence contro l’Iran. Ma le due carte di valore in mano a Israele per promuovere l’integrazione nella regione sono appunto i territori occupati abitati da circa cinque milioni di palestinesi, sotto controllo militare israeliano più o meno diretto e totale, e l’arsenale non convenzionale, tenuto sotto un velo di opacità, ma temuto da tutti i paesi limitrofi. Si dice, per esempio, che il ministro della difesa israeliano, il generale Moshe Dayan, atterrito dall’attacco egiziano a sorpresa nel 1973, avesse proposto di fare uso dell’arsenale non convenzionale. Israele, tra l’altro, non è firmataria della convenzione Nnpt contro la proliferazione nucleare (assieme soltanto a India, Pakistan e Corea del Nord) e quindi non è sotto controllo internazionale. Dal punto di vista israeliano, purtroppo, sembra che nessuna delle due carte sia trattabile. L’anno scorso non meno di 99 parlamentari su 120, cioè un’unanimità di coalizione e opposizione assieme, esclusi gli arabi, hanno votato contro l’eventuale riconoscimento internazionale dello stato di Palestina, malgrado l’impasse nelle trattative dovuta a Israele. Pochi mesi dopo, 68 deputati della maggioranza, senza voti contrari dell’opposizione, eccetto appunto gli arabi, hanno bocciato la possibilità di uno stato palestinese a fianco d’Israele, anche se parte dell’accordo di pace multilaterale. E al nucleare nemmeno si deve accennare, dato che Israele è stata contraria alle trattative stesse, sia di Obama, sia adesso di Trump, fidandosi appunto solo della forza e della minaccia di reiterare l’attacco (pare adesso che il successo non sia stato così totale e irreparabile come proclamato). Né si osa accennare che proprio il ritiro di Trump dall’accordo firmato da Obama è stato ciò che ha permesso all’Iran di procedere all’arricchimento dell’uranio fino al 60%, al punto che nessuno osa chiedere a quale funzione civile possano servire i quattrocento chili di uranio così arricchito. Sotto l’incubo dell’Olocausto, la parola d’ordine è "mai più": ogni minaccia è esistenziale, ogni attacco è visto come potenziale distruzione dello Stato degli ebrei, ogni trattativa di compromesso viene respinta come se somigliasse a quello del Chamberlain del 1938 a Monaco. Mentre Israele è oggi una realtà economica, culturale e sociale irreversibile di otto milioni di ebrei, che può permettersi di rispettare i diritti democratici di una minoranza del 20% dei suoi cittadini, senza pericolo per la sua identità. È una potenza militare a livello quasi mondiale che può permettersi di trattare senza paura con i regimi della regione. Tanto più che gli interessi di questi paesi a stabilizzare la zona, a combattere i movimenti terroristici e a ottenere la fiducia dei loro popoli, invece di lasciarli in preda al fanatismo e all’estremismo, sarebbero identici a quelli israeliani. Tutto il contrario della situazione esistente subito dopo la creazione dello stato d’Israele nel 1948, con soli 650 mila ebrei, quando gli arabi ancora potevano sperare nella sua eliminazione come in una crociata. Quindi sarebbe l’ora di una revisione della dottrina di sicurezza israeliana, basata soltanto sulla forza. Dovremmo adottare una dottrina fondata su coalizioni di interessi regionali e internazionali e sull’apertura di canali di sviluppo economico, sociale e culturale, anche e anzitutto per i palestinesi: la loro identità nazionale si è formata durante il conflitto territoriale col sionismo e il loro diritto all’autodeterminazione non è meno legittimo di quello israeliano. Il suo riconoscimento potrebbe essere la base di trattative meno impari. Tanto più che le guerre ora non sono più tra gli eserciti in lizza e non vengono risolte con la capitolazione dei generali o dei governi: le guerre moderne colpiscono sempre più le popolazioni civili tra le quali, poi, i movimenti ideologici o fanatici trovano riparo, voluto o forzato. Eccetto per il caso della Cecenia, dovuto ai metodi di Putin, da anni non c’è esempio di guerra terminata con la vittoria della potenza militare e non del movimento irredentista o anticoloniale. Ma spesso la potenza militare si è trovata impantanata per anni in guerre di logoramento, terminate con la fuga del più potente e, a volte, con un risultato geopolitico peggiore di prima e con un paese lasciato a se stesso, smembrato da lotte interne senza fine. I veri pericoli esistenziali per la sicurezza di Israele, a breve e anche a lungo termine, sono i fanatici estremisti sia tra i musulmani, sia tra gli ebrei, che minacciano sia la coesione interna sia la possibile coesistenza pacifica di due società così fortemente intrecciate. Rimmon Lavi una città 3 UNA CITTA’ Redazione: Barbara Bertoncin, Stefano Ignone, Silvana Massetti, Giovanni Pasini, Paola Sabbatani, Gianni Saporetti (direttore), Giuseppe Ramina (direttore responsabile). Collaboratori: Katia Alesiano, Rosanna Ambrogetti, Oscar Bandini, Luca Baranelli, Michele Battini, Antonio Becchi, Alfonso Berardinelli, Sergio Bevilacqua, Guia Biscàro, Stephen E. Bronner, Giorgio Calderoni, Flavio Casetti, Marina Cattaneo, Alberto Cavaglion, Alessandro Cavalli, Giada Ceri, Luciana Ceri, Luciano Coluccia, Francesca De Carolis, Ildico Dornbach, Bruno Ducci, Fausto Fabbri, Roberto Fasoli, Adriana Ferracin, Bettina Foa, Vicky Franzinetti, Iacopo Gardelli, Liana Gavelli, Wlodek Goldkorn, Belona Greenwood, Joan Haim, Rimmon Lavi, Massimo Livi Bacci, Matteo Lo Presti, Giovanni Maragno, Emanuele Maspoli, Franco Melandri, Annibale Osti, Cesare Panizza, Andrea Pase, Edi Rabini, Alberto Saibene, Massimo Saviotti, Sulamit Schneider, Giovanni Tassani, Massimo Teodori, Massimo Tesei, Massimo Tirelli, Fabrizio Tonello, Michael Walzer, Simone Zoppellaro. In copertina: foto di Operazione Colomba. Hanno collaborato: Alberto Bordignon, Valentina Gacic, Bekir Halilovic, Anna Hilbe. Proprietà: Fondazione Alfred Lewin Ets. Editore: edit91 società cooperativa. Questo numero è stato chiuso il 25 agosto 2025.
una città 4 FAME, SETE E PALLOTTOLE All’inizio di maggio 2025, il gabinetto di sicurezza israeliano ha approvato il piano “Carri di Gedeone”, con l’obiettivo di “conquistare” la Striscia di Gaza, “stabilirvisi”, eliminare Hamas, liberare gli ostaggi e trasferire la popolazione palestinese in una piccola area nella parte meridionale dell’enclave. Tra le altre misure, il piano prevede un programma di distribuzione di aiuti umanitari, affidato alla Gaza Humanitarian Foundation (Ghf), un’organizzazione privata registrata nel Delaware poche settimane dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca. La Ghf, che nelle intenzioni del governo israeliano sostituisce le agenzie delle Nazioni Unite e le ong internazionali ha iniziato il suo intervento alla fine di maggio. Le notizie sul nuovo partner “umanitario” sono scarse. Non si sa quale governo abbia fornito i fondi per avviare le attività della Ghf nel primo mese, ma sappiamo che a giugno gli Stati Uniti hanno destinato 30 milioni di dollari alla fondazione e che il suo presidente è il reverendo Johnnie Moore, ex consigliere della campagna per la rielezione di Donald Trump e uno dei leader dei cristiani evangelici che, negli Stati Uniti, costituiscono il movimento più influente e numeroso di sostenitori di Israele. Nelle undici settimane precedenti, Israele aveva proibito l’ingresso nella Striscia di qualsiasi forma di aiuti umanitari riducendo -non per la prima volta- l’intera popolazione palestinese alla fame. Secondo l’Integrated Food Security Phase Classification (Ipc), lo strumento utilizzato da tutte le organizzazioni umanitarie per descrivere la natura e la gravità delle crisi alimentari, a maggio la maggioranza della popolazione palestinese di Gaza si trovava in una condizione d’insicurezza alimentare classificata tra 4 e 5, dove quest’ultima (Ipc5) denota uno stato di carestia e crisi umanitaria catastrofica (Fig. 1). In pratica secondo l’Ipc, in aprile oltre 900.000 di gazawi (il 44% della popolazione a Gaza) erano in una situazione di insicurezza alimentare acuta, prossima alla soglia di fame, mentre quasi 250.000 persone (il 12%) si trovavano in una situazione di “catastrofe”, ovvero appena al di sotto di tale soglia. Durante la tregua di sei settimane tra gennaio e marzo, come del resto nei sedici mesi precedenti a partire dall’ottobre 2023, l’assistenza umanitaria era fornita da agenzie dell’Onu (Unicef, Programma alimentare mondiale) e ong internazionali (ad esempio, Anera, World Kitchen Corps, Norwegian Refugee Council). A Gaza, come nelle altre situazioni di crisi umanitarie in cui operano, tutte le agenzie adottavano regole consolidate da anni. Per cominciare i punti di distribuzione erano situati in luoghi facilmente accessibili ai destinatari dell’assistenza. Nella Striscia, il numero dei punti di distribuzione (circa 400) e la frequenza delle distribuzioni erano proporzionati al numero di beneficiari da assistere onde evitare assembramenti troppo grandi e difficili da gestire, e non costringere i palestinesi a camminare lungo grandi distanze dai loro rifugi di fortuna. Tutti i destinatari di aiuti umanitari venivano identificati e registrati per correlare le forme e la qualità dell’assistenza al grado di difficoltà della popolazione dando priorità alle persone più vulnerabili incluse gli anziani, i malati, i disabili, le donne incinte o che allattano e i bambini sotto ai cinque anni. israele-palestina Insieme agli effetti devastanti sulla sicurezza alimentare e nutrizionale, la conseguenza principale del blocco alimentare imposto da Israele è stato un aumento esplosivo dei prezzi degli alimenti di base nella Striscia. All’inizio dell’anno, le derrate alimentari più comuni avevano un valore stabile e accessibile. A metà luglio, a Deir al Balah, il prezzo di un sacco da un chilo di farina costava tra oltre 150 shekel (circa 38 euro), il 7.800% più di quanto costasse prima che Israele arrestasse il flusso di aiuti umanitari [1]. Un chilo di zucchero che, prima del cessate-il-fuoco di gennaio 2025 costava 3 euro, a giugno ne costava più di 60 [2]. Quindi, tra la tarda primavera e l’inizio dell’estate, dopo quasi tre mesi di blocco, il cibo nella striscia è diventato un bene scarso e costosissimo, al di fuori dalla portata della stragrande maggioranza della popolazione. E quando un semplice sacco di farina diventa una merce preziosa, aumenta il numero di persone disposte a usare mezzi violenti per impadronirsene, inclusi delinquenti comuni, bande criminali, miliziani di Hamas. Il blocco ha reso i pochi luoghi in cui il cibo è ancora disponibile (convogli umanitari, depositi) obiettivi ad alto rischio. Non a caso si sono verificati saccheggi, furti e assalti. Tutto prevedibile e, plausibilmente previsto, dal governo di Israele. Nulla di tutto ciò sarebbe successo se a Gaza il pane e le patate non fossero diventati beni di lusso. Nulla di ciò sarebbe successo se il governo di Netanyahu non avesse imposto il blocco. Per giustificare quest’ultimo, Israele aveva accusato Hamas di appropriarsi delle forniture umanitarie al fine di sostenere le proprie azioni terroristiche. Premesso che Hamas può monetizzare scorte alimentari solo se queste sono costose, a sconfessare l’ accusa israeliana è arrivato a fine luglio uno studio dell’United States Agency for International Development (UsAid), l’agenzia statunitense che si occupa di aiuti umanitari e allo sviluppo. L’analisi dell’UsAid non ha evidenziato prove di furti sistematici degli aiuti umanitari finanziati dagli Stati Uniti da parte Hamas, smentendo quindi la motivazione addotta da Israele per sospendere l’ingresso di cibo e sostenere l’intervento della Ghf. La messinscena della Gaza Humanitarian Foundation: da un sistema con centinaia di punti di distribuzione e una registrazione dei soggetti vulnerabili a 4 centri, dove, per mangiare, si rischia la vita. Le parole, inequivocabili, dei ministri del governo israeliano. Di David Calef. Il blocco alimentare e i suoi effetti sotto il controllo della Ghf, i punti di distribuzione sono passati da 400 a 4, tre dei quali nell’estremo sud della striscia
una città 5 Nulla di tutto questo sta succedendo a Gaza dalla fine di maggio. L’esercito israeliano ha imposto, per la distribuzione degli aiuti, la sostituzione della Ghf alla precedente gestione dell’Onu e delle ong, accusate di collusione con Hamas. Sotto il controllo della Ghf, i siti sono passati da 400 a quattro, tre dei quali si trovano a ovest di Rafah, nell’estremo sud della striscia, e uno solo nella parte centrale non lontano dal corridoio di Netzarim. La Ghf non ha pianificato alcun centro di distribuzione nella parte settentrionale di Gaza dove si trovano centinaia di migliaia di palestinesi che in tal modo restano tagliati fuori dagli aiuti. La scelta logistica di Ghf costringe quindi una parte della popolazione a percorrere lunghe distanze per accedere agli aiuti e ne esclude del tutto la parte che per diversi motivi non riesce a raggiungere i punti di distribuzione. Inoltre, fino ad ora, la Ghf non ha organizzato alcun sistema di identificazione e registrazione dei beneficiari, con la conseguenza che l’organizzazione non esercita alcun controllo per assicurare che tutta la popolazione bisognosa di assistenza sia coperta adeguatamente, col rischio che qualcuno riceva più aiuti di quanto gli sia dovuto, a scapito di qualcun altro. Dal punto di vista sia pratico che nutrizionale, i pacchi alimentari distribuiti dalla Ghf rivelano l’incompetenza e l’incuria di chi li ha concepiti: i pacchi alimentari della Ghf contengono principalmente alimenti che richiedono cottura come pasta, riso e bulgur, mentre a Gaza la scarsità di acqua potabile e di combustibile ne rende difficile la preparazione. Inoltre, i pacchi sono privi di alimenti freschi e di cibo specifico per neonati e mancano quindi di vitamine e dei micronutrienti necessari per evitare forme croniche o acute di malnutrizione. Fino a marzo agenzie dell’Onu e ong distribuivano pacchi alimentari, cercando di ottenere un giusto equilibrio tra macronutrienti (come grassi e proteine) e micronutrienti (come vitamina A e ferro). Per di più, ogni razione della Ghf è in media di circa 1.750 calorie/giorno inferiore alla razione umanitaria standard di 2.100 calorie per persona al giorno considerata quella necessaria a nutrire un individuo adulto. Insomma, il regime alimentare ideato per i gazawi sembra fatto apposta per ridurli all’inedia. Ma ciò che soprattutto distingue il sistema di aiuti della Ghf da quello esistente fino a pochi mesi fa è che riceverli è diventato una lotteria mortale, in cui coloro che arrivano nei pressi dei siti di distribuzione rischiano la vita e spesso la perdono. Ad ogni distribuzione l’esercito israeliano e i mercenari americani impiegati dalla Ghf sparano sulle folle di palestinesi radunatesi in attesa di ricevere il cibo. Il risultato è che alla fine di luglio quasi mille palestinesi erano stati uccisi dai soldati israeliani. Secondo la versione ufficiale dell’esercito israeliano i soldati sparano colpi di avvertimento contro “individui sospetti” che si avvicinano troppo alle loro posizioni. In realtà le testimonianze, sia dei palestinesi sia degli operatori umanitari presenti sul campo e corroborate da esperti di armi consultati dalla Cnn, sostengono che i beneficiari dell’assistenza non sono in preda ad un impulso suicida, ma che Tsahal fa un uso molto disinvolto di cecchini, droni e carri armati per “controllare” la folla. Il riscontro definitivo riguardo alle responsabilità israeliane viene dai soldati stessi. Militari israeliani intervistati dai giornalisti di “Haaretz” e del “Wall Street Journal” (questi ultimi embedded con l’Idf a luglio) hanno confermato di aver ricevuto dai loro comandanti l’ordine di sparare ai civili palestinesi anche quando è chiaro che questi ultimi non costituiscono una minaccia [3]. Un palestinese sta oltrepassando una linea non segnalata al di là della quale non si può passare? I soldati israeliani sparano perché le regole d’ingaggio lo consentono. Che cosa spiega questa ennesima manifestazione di incompetenza mista a sadismo dopo 22 mesi di stragi? Su questo da tempo non ci sono più dubbi: basta ascoltare e leggere le dichiarazioni rilasciate dai membri del gabinetto di guerra negli ultimi mesi. A marzo il ministro delle finanze Bezalel Smotrich affermava che il governo era pronto a creare un’agenzia per l’immigrazione da Gaza per realizzare il piano di Trump che mira a trasformare i 40 chilometri di costa di Gaza in un complesso turistico e a deportare quel che resta dei 2,2 milioni di residenti. Ad aprile il ministro degli esteri Gideon Sa’ar ha confermato i propositi di deportazione del governo. Nel corso di una conferenza a Gerusalemme, Sa’ar ha detto che incoraggiare l’emigrazione “volontaria” da Gaza è “la cosa più morale e umana da fare” [4] sottolineando che l’iniziativa è in linea con la proposta di pulizia etnica fatta da Trump a febbraio. Ancora più chiaro è stato il primo ministro Netanyahu che a maggio, durante una riunione della Commissione Affari Esteri e Difesa della Knesset, ha dichiarato: “Stiaisraele-palestina alimenti che richiedono cottura come pasta, riso e bulgur, mentre a Gaza c’è scarsità di acqua e combustibile... uno degli obiettivi dei centri di distribuzione della Ghf è spostare la popolazione di Gaza verso sud Fig. 1. Striscia di Gaza: IPC Acute Food Insecurity and Acute Malnutrition. Special Snapshot aprile-settembre 2025. Fonte: IPC (aprile 2025)
una città 6 israele-palestina mo demolendo sempre più case; [i palestinesi] non hanno un posto dove tornare…”. L’unica conseguenza naturale sarà il desiderio tra i cittadini di Gaza di emigrare. Il nostro problema principale è trovare Paesi disposti ad accoglierli [5]”. Durante la riunione Netanyahu ha detto esplicitamente ciò che fino ad allora aveva lasciato dire a Smotrich, cioè che i cittadini di Gaza potranno ricevere gli aiuti purché non tornino nei luoghi da cui arrivano. In altre parole, uno degli obiettivi dei centri di distribuzione gestiti dalla Ghf è attrarre la popolazione di Gaza nel sud dell’enclave per indurre a uno spostamento permanente dal nord e dal centro verso il confine con l’Egitto e, in una seconda fase, verso gli eventuali paesi disposti ad accoglierli. Già a metà di giugno i piani del governo israeliano erano a buon punto: secondo l’Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (Ocha), l’82% del territorio di Gaza è un’area vietata ai palestinesi o sotto ordini di sfollamento. Sempre a maggio, in un video postato su X, Netanyahu ha dichiarato che sebbene Israele stia dispiegando “forze massicce per prendere il controllo di tutta la Striscia di Gaza... non possiamo arrivare alla carestia, per ragioni pratiche e diplomatiche”, aggiungendo che “i più stretti amici di Israele nel mondo”, compresi senatori statunitensi, gli hanno detto che il loro sostegno [per Israele] è incrollabile, ma che non possono “sopportare immagini di fame di massa” [6]. In questa dichiarazione ci sono due elementi da porre in evidenza: per la prima volta dall’ottobre 2023, un politico israeliano, e non uno qualsiasi, riconosce pubblicamente l’esistenza della fame nella striscia. In secondo luogo, Netanyahu ammette candidamente di consentire la ripresa dell’assistenza alimentare a Gaza solo per non contrariare certi politici americani amici suoi e non mettere in tal modo a rischio il sostegno militare Usa alla campagna bellica israeliana. In sostanza, il dilemma affamare o non affamare un popolo viene trattato come una questione di pubbliche relazioni. Del resto, da ventidue mesi a questa parte, i palestinesi sono sempre più alla mercé degli aiuti umanitari visto lo stato di devastazione in cui versano i principali mezzi di sostentamento della popolazione: l’agricoltura e la pesca. Ad aprile di quest’anno, la Fao stimava che l’80% della superficie totale coltivata della Striscia di Gaza era stata distrutta o danneggiata. Allo stesso modo in seguito alle ostilità, dall’ottobre 2023, fino ad oggi, il settore della pesca ha subito un crollo catastrofico, operando solo al 7% della sua capacità produttiva precedente all’escalation. Gaza che non era autosufficiente in produzione alimentare neanche prima del 7 ottobre, non potrà per molto tempo produrre cibo sufficiente per sfamare neanche una piccola parte della popolazione. Quindi, anche se l’esercito israeliano si ritirasse da una parte della striscia, l’emigrazione forzata -nota nel linguaggio del diritto internazionale come pulizia etnica- potrebbe restare l’unica opzione disponibile ai gazawi. La messa in scena distopica della Ghf avrebbe potuto essere evitata. A metà maggio le Nazioni Unite avevano presentato a Israele un piano completo che rispondeva alle preoccupazioni di sicurezza degli israeliani: osservatori Onu a ogni valico di entrata in Gaza e ai checkpoint, merci etichettate con codice Qr, camion tracciati tramite gps su percorsi pre-autorizzati dall’esercito israeliano e distribuzione di cibo in quattrocento siti. Prima di essere presentato ufficialmente, il piano dell’Onu era stato discusso con l’unità di coordinamento per gli affari civili dell’esercito israeliano, che non ha dato il suo consenso. Del resto, perché il governo israeliano avrebbe dovuto accettare un sistema di aiuti più efficiente che non prevede l’uccisione quotidiana di disperati in attesa di cibo? In questa primavera, il governo di Netanyahu ha realizzato l’auspicio di Smotrich che nel 2024 aveva confessato a malincuore: “Nessuno al mondo ci permetterebbe di far morire di fame e di sete due milioni di cittadini, anche se fosse giusto e morale” [7]. Smotrich, però, in quella circostanza si sbagliava. Il “mondo” magari deplora a mezza bocca i metodi dell’esercito israeliano, ma in sostanza si guarda bene dall’intralciare uno sterminio eseguito mediante fame, sete e pallottole. Bibliografia selezionata [1] Spitzer Y., Comunicazione personale, 24 luglio 2025. Yannay Spitzer è professore di economia presso l’università ebraica di Gerusalemme. [2] World Food Programme, Market Monitor - Gaza, Wfp Palestine Food Security Analysis, giugno 2025. [3] Hasson N., Kubovich Y. e Peleg B., “‘It’s a Killing Field’: Idf Soldiers Ordered to Shoot Deliberately at Unarmed Gazans Waiting for Humanitarian Aid”, “Haaretz”, 27 giugno 2025. [4] Jewish News Syndicate, “Sa’ar: Encouraging Gaza emigration ‘most moral and humane thing”, 27 aprile 2025. [5] Bloch A., “Limor Son Har Melech ha sbalordito la commissione della Knesset”, “Maariv”, 11 maggio 2025. [6] Netanyahu, B., “Un aggiornamento importante da me per voi”, X, 19 maggio 2025. [7] Karni D., “Israeli minister says it may be ‘moral’ to starve 2 million Gazans, but ‘no one in the world would let us’”, Cnn, 6 agosto 2024. “nessuno ci permetterebbe di far morire di fame e sete 2 milioni di cittadini” aveva detto Smotrich Fig. 2 L’aumento dei prezzi del cibo a Gaza da settembre 2023 a giugno/luglio 2025. Elaborazione su dati WFP, 2025, Spitzer, 2025
una città 7 L’intervistata è una volontaria di Operazione Colomba; ha chiesto che il suo nome non venga riportato per poter tornare nei territori palestinesi. Sei da poco tornata da Masafer Yatta, puoi raccontare la situazione che hai trovato? Era la quarta volta che andavo in Palestina, nell’ambito del progetto Operazione Colomba che fa un lavoro che viene definito di “protection”, cioè accompagnamento delle comunità locali nelle loro attività quotidiane. Quella di cui parlo è una comunità che, di fronte a uno degli eserciti più grandi e potenti al mondo, ha scelto come strategia di resistenza la nonviolenza. Da ventisei anni, da quando hanno vinto la causa contro l’espulsione di dodici comunità di Masafer Yatta, nell’area delle colline a sud di Hebron, è stato costituito questo comitato di resistenza popolare che unifica vari villaggi e si coordina all’interno della Palestina con altre realtà analoghe in quello che è il Popular Struggle Coordination Committee, Pscc. Le attività che noi internazionali svolgiamo sono appunto quelle di accompagnamento nella pastorizia, nelle attività di agricoltura, negli spostamenti degli attivisti locali quando diventano target di rappresaglie. Dormiamo nelle case di queste famiglie nei villaggi dove c’è più bisogno di protezione. Interveniamo nel momento in cui si sta agendo effettivamente una violenza sia da parte dei coloni che da parte dell’esercito, principalmente realizzando delle videoriprese e quindi documentando. L’obiettivo è quello di provare ad abbassare un po’ la tensione e al contempo raccogliere delle prove di quello che sta avvenendo: violazioni dei diritti umani, fondamentalmente. Quando sono arrivata era un momento in cui la comunità aveva ricominciato a reagire perché dopo il 7 ottobre erano stati praticamente bloccati in casa; non solo non si potevano muovere, ma subivano continui attacchi fin nel cortile di casa. C’era quindi stato un momento di congelamento di qualsiasi attività. Ecco, con l’arrivo della primavera, avevano ripreso le occupazioni quotidiane anche cercando di recuperare le terre che nel frattempo avevano perso. Quindi il mio arrivo è corrisposto a un relativo entusiasmo da parte mia perché vedevo comunque una reazione, mentre l’anno precedente c’era più un clima di paura. Ovviamente parliamo di piccoli obiettivi perché si faceva veramente un metro al giorno, però il sentimento era: “Piano piano quella terra me la riprendo, non vado via come nella Nakba”. La prima emergenza a cui ho partecipato è stata l’invasione di un terreno da parte di un colono con il suo gregge; quando siamo arrivati lui non c’era più, ma aveva devastato il terreno e spezzato i rami degli ulivi; abbiamo trovato la famiglia palestinese già intenta a risistemare e ad allestire una rete. Si percepiva il riemergere di una voglia di riscatto. Quel giorno ho pensato che avesse senso essere lì. Immediatamente poi la comunità si è radunata intorno a questa famiglia, che era stata vittima di numerosi attacchi nel giro di poco tempo. Mi piacerebbe dire che la cosa poi si è conclusa positivamente, ma purtroppo non è così. Cosa possono fare i palestinesi per far valere i loro diritti? Oggi i palestinesi chiamano spesso la polizia israeliana perché l’unico soggetto garante della giustizia paradossalmente è un organo israeliano. D’altra parte non hanno alternative. L’esercito ha potere sui civili palestinesi, ma non sui civili israeliani. La polizia invece ha potere anche sui coloni. Quindi i palestinesi chiamano la polizia e i coloni chiamano l’esercito. Fondamentalmente la scena è sempre quella. In molti casi poi finisce che la polizia dice loro di non chiamarli più e nel frattempo arriva l’esercito, che arresta i palestinesi che hanno subìto gli attacchi! Mentre ero lì, il padre della famiglia sotto attacco è stato gambizzato da un colono. Quell’area è molto esposta, essendo vicina a una colonia, e la famiglia è battagliera, per cui è costantemente vittima di attacchi. Quel giorno ci ha chiamato. È accaduto tutto molto velocemente. C’erano due coloni, di cui uno armato; il colono non armato ha iniziato a malmenare suo figlio. Nel frattempo l’intera famiglia era andata nel campo e aveva iniziato a riprendere. A quel punto il padre è corso in soccorso del figlio e il colono armato gli ha sparato a una gamba. Sono arrivati polizia, ambulanza, esercito… Il padre è stato portato in un ospedale israeliano (l’ambulanza era stata chiamata dagli attivisti israeliani che sostengono la lotta della comunità). Comunque è stato arrestato lui! Aveva i piantoni nella stanza e le manette al letto. Dopodiché anche il figlio è stato arrestato e messo in un carcere minorile. Sono poi stati rilasciati entrambi sotto cauzione. Il padre inizialmente è rimasto in ospedale perché purtroppo ha subìto l’amputazione della gamba, suo figlio invece è tornato a casa dopo qualche giorno. La comunità si è subito stretta attorno a questa famiglia: si facevano le veglie notturne, si presidiavano la terra e la casa, perché erano rimaste solo donne e bambini, quindi si temeva che i coloni potessero approfittarne. Quando il ragazzo è tornato, c’era tutta la famiglia allargata, con anche membri dei villaggi vicini, oltre agli internazionali e agli attivisti israeliani. Devo dire che, pur conoscendo il ragazzo, lì per lì non l’avevo riconosciuto, aveva gli occhi spenti, sembrava proprio un’altra persona, è stato impressionante. Nel periodo rimanente abbiamo continuato a “coprire” la casa: la maggior parte delle notti le trascorrevamo lì, perché i coloni continuavano a tornare. Sono due casette e il terreno è appena sopra. Poi ci sono stati altri “accompagnamenti”: c’era un’altra famiglia impegnata a riprendersi la sua terra... Dopo il 7 ottobre sono nati molti di questi cosiddetti outpost: gli avamposti sono spuntati come funghi e circondano i villaggi palestinesi. I coloni appena arrivano piantano una bandiera di Israele e poi pian piano compare una baracca, un prefabbricato, si portano gli animali e rapidamente si allargano. Sul terreno di questa famiglia avevano piantato tre bandiere enormi, a dire: “Questo posto non è più vostro”. Questa famiglia non ha paura dei coloni, però ha paura dei soldati, degli arreUn’esperienza di volontariato in Palestina, nell’area di Masafer Yatta, accanto a una comunità che, giorno dopo giorno, davanti a furti, aggressioni, uccisioni, porta avanti una forma di resistenza nonviolenta; lo sconforto, di fronte a tanta ingiustizia, che fa dubitare del senso del proprio impegno, ma anche l’imprevista gioia di stare in mezzo a un gruppo di donne e uomini che, nonostante tutto, alla fine di una giornata di angherie trova la forza di ridere. il colono armato gli ha sparato a una gamba, è stato portato in ospedale... e poi è stato arrestato il palestinese! SIAMO ANCORA QUI israele-palestina
una città 8 sti. Quindi finché c’erano soltanto i coloni, loro sono rimasti nell’area. Quando i coloni hanno chiamato i soldati, sono scappati. A quel punto abbiamo iniziato a fare da vedetta. Abbiamo cominciato a vedere dei movimenti avanti e indietro che non capivamo, dopo un po’ abbiamo visto spuntare delle bandiere... Avevano piantato ben dodici bandierine! Quando i coloni sono andati via, i palestinesi si sono organizzati per andare a strapparle. Purtroppo hanno calcolato male i tempi... Anche qui non è finita bene, perché i coloni hanno immediatamente chiamato i soldati che nel pomeriggio sono andati nel villaggio ad arrestare uno dei fratelli di questa famiglia. Queste azioni hanno sempre un intento intimidatorio, per cui il giorno dopo l’hanno rilasciato dietro pagamento di una cauzione, per poi tornare, di lì a poco, ad arrestarlo di nuovo... Io trovo ammirevole questa loro forma di resistenza, con cui, pur in modo semplice e forse anche un po’ scalcagnato, non si stancano di affermare che quella è la loro terra e non se ne andranno. Qual è l’appiglio formale con cui viene loro sottratta la terra? È complicato. Le comunità che sono state espulse e poi riammesse ora sono di nuovo sotto ordine di evacuazione, perché lì hanno istituito una zona di addestramento militare, che è una delle strategie dello stato israeliano per sottrarre la terra, insieme all’istituzione di siti archeologici, parchi nazionali, ecc. Insomma, questi villaggi sono finiti all’interno di una zona di addestramento militare che “casualmente” si trova nel corridoio che collega il sud di Israele, quindi il Negev, con il nord. I più giovani cosa pensano, che prospettive hanno? Loro sono lì. Molti potrebbero andare via; hanno un’istruzione superiore elevata; diversi sono diventati giornalisti e scrivono per testate internazionali. Il fatto è che non vogliono andare via. Hanno ereditato la battaglia dei loro nonni e nonne. E quindi scelgono di rimanere con tutte le difficoltà del caso. In questi anni hanno messo in campo anche forme nuove di resistenza. Sono nati e cresciuti all’interno di questo Comitato di resistenza popolare che già aveva scelto la nonviolenza come strategia e nel 2018 hanno formato un collettivo che si chiama “Youth of Sumud” che si muove in modo molto intelligente. Sarura, un villaggio abbandonato a causa della violenza dei coloni e dei costanti attacchi subiti, ormai ridotto a poche pietre e alcune grotte, era però in una posizione strategica; ecco, i giovani hanno deciso di ripristinare le grotte, risistemare le case, dopodiché hanno restituito le chiavi ai proprietari. È stato un bel gesto di resistenza collettiva; tanto più che erano stati appunto i più giovani sia a pianificarlo che a realizzarlo. Oggi sono loro che portano avanti le forme di resistenza più importanti. Ma chi sono questi coloni? Quelli di cui parliamo sono spinti da un’ideologia che è un mix di fanatismo religioso, ultranazionalismo ed etno-suprematismo ebraico. Non sono contadini o pastori, per ceto sociale, lo sono diventati sempre di più perché negli ultimi anni una delle strategie di occupazione delle terre è quella che viene chiamata di “herding colonialism”, un colonialismo di insediamento in cui ci si appropria anche delle modalità native e le si rivendica come proprie. La prima volta che ci sono andata, c’erano pochissimi coloni pastori adesso invece sono sempre di più. Come non bastasse, ci sono pure dei programmi di reinserimento di minori attraverso la pastorizia per cui i ragazzi vengono mandati nelle colonie, come riscatto sociale! C’è infine un programma analogo per gli orfani. Molti coloni non vengono da Israele, sono ebrei che fanno la loro “Aliyah”, prendono la cittadinanza e vanno a vivere negli insediamenti. Esiste un sistema ben organizzato; c’è il coordinamento delle colonie, ci sono delle fondazioni private che finanziano. Il tutto poi avviene con il sostegno, economico e burocratico-amministrativo, del governo. Nella zona dove operiamo noi, ci sono molti ebrei americani, francesi, qualche italiano; principalmente vengono dall’Europa e dagli Stati Uniti; ci sono poi diversi sudafricani, qualche etiope, ecc. Qual è il rapporto tra i coloni e i soldati? Ormai non c’è più distinzione: spesso i coloni sono soldati e infatti adesso si chiamano “soldati coloni”; sono principalmente dei riservisti; essendo l’esercito impegnato a Gaza, vengono coinvolti questi riservisti volontari. All’inizio si faceva fatica a distinguerli, ora capiamo che sono loro perché sono meno equipaggiati; spesso hanno un abbigliamento tipo quello da softair che si trova nei negozi. Però, a parte questo, hanno lo stesso potere; spesso anzi si vedono i coloni dare ordini ai soldati. Di recente c’è stato un attentato e i soldati hanno arrestato il colono responsabile; il giorno dopo Ben Gvir ha fatto una dichiarazione contro l’esercito... E con gli internazionali e gli israeliani che sostengono la lotta palestinese? Va un po’ a ondate. Nelle ultime due settimane l’obiettivo dell’esercito non sono più i giovani hanno formato un collettivo che si chiama “Youth of Sumud” che si muove in modo molto intelligente...
una città 9 cosa sta succedendo
israele-palestina una città 10 i palestinesi, ma gli internazionali, infatti ci sono stati una serie di arresti mirati. Le strategie sono sempre molto difficili da decifrare. Sicuramente oggi il senso di impunità è forte e diffuso, per cui anche il nostro ruolo di deterrente attraverso l’uso della fotocamera è ridimensionato; l’impressione è che possano fare quello che vogliono. Se la comunità internazionale non reagisce a quello che sta succedendo a Gaza, che è ormai un genocidio in diretta, la sprangata di un colono contro un palestinese non fa neanche notizia. La nostra presenza ormai serve principalmente a non far sentire abbandonati le comunità palestinesi. Subito dopo il 7 ottobre è stato terribile perché erano rimasti soli e molti hanno veramente pensato che li avrebbero ammazzati, tutti perché la violenza dei coloni era fuori controllo. I primi a tornare sono stati gli israeliani, poi Operazione Colomba a cui in seguito si sono aggiunti quelli dell’International Solidarity Movement. Come nasce questa scelta di una resistenza nonviolenta? I giovani attivisti con cui ho parlato non si sentono rappresentati da Hamas, né dalla Jihad islamica, ma neanche, per esempio, da Marwan Barghouti. Gli riconoscono un potenziale ruolo di unificatore, però parlandone mi hanno proprio detto: “Lui è un resistente armato e quindi non ci rappresenta perché noi abbiamo scelto un’altra strada”. Questa è una comunità che ha scelto la nonviolenza. Forse c’è qualche famiglia più tradizionale che sostiene Hamas, ma sono casi isolati, anche perché parliamo di una società abbastanza laica, dove i comitati di resistenza popolare sono una realtà molto presente e attiva, anche se non hanno molta visibilità, perché non sono un partito. Hanno una forma di organizzazione molto orizzontale con rappresentanti all’interno delle comunità. Fanno molto lavoro di base e operano a un livello diverso da quello della rappresentanza politica tradizionale, che peraltro in Palestina è molto corrotta. Ecco, loro sono fuori da queste dinamiche, poi ovviamente ogni villaggio ha una sua fisionomia, ma direi che la maggioranza non è affiliata a nessun partito, anzi non ne vuole sapere... Aggiungo che in questa scelta, il ruolo delle donne è stato fondamentale, anche se spesso meno visibile. Intanto, pur essendo una società patriarcale, le donne si ritagliano ampi spazi di autonomia. Mettono su cooperative di lavoro che, oltre a permettere loro di portare a casa un reddito, sono anche un luogo d’incontro e di confronto politico. A volte, nelle loro riunioni, discutono proprio di strategie di resistenza. In generale comunque in Palestina le donne hanno titoli di studio superiori agli uomini. La loro presenza è cruciale anche nelle azioni sul campo. Mi è capitato di vedere tutte queste donne schierate a fare resistenza alle aggressioni dei coloni; spesso poi creano scompiglio quindi sono anche un elemento di distrazione, oltre che di abbassamento della tensione. Sfruttano il “vantaggio” di subire meno ripercussioni del capofamiglia o dei giovani; volgono in loro favore la poca considerazione loro riservata. Le ho viste anche, nella confusione da loro stesse creata, riprendersi gli uomini che avevano già le fascette ai polsi per essere arrestati e portati via. Cose che solo le donne possono fare! La scuola di At-Tuwani è stata costruita grazie all’intuizione di donne come la mamma del regista Basel Adra, che sanno giocare sulle linee di discriminazione. In quel caso l’idea delle donne era stata di accentrare l’attenzione su di loro e i bambini, mentre gli uomini, di notte, innalzavano i muri dell’edificio... dopo tutto quello che ho vissuto oggi, se riesco a ridere, vuol dire che siamo ancora qui e che non molliamo lei gli ha detto: “Agisci con intelligenza. Loro hanno tutto, Tu non hai niente. Non farmi piangere un figlio morto”
una città 11 La nonna di Sameeha è sempre stata un’altra figura cruciale. Sempre in prima fila, negli anni Novanta, durante un’azione, anche lei è stata spintonata e si è rotta un’anca. Suo figlio in quella stessa occasione era stato arrestato. Quando è tornato dalla prigione aveva giurato vendetta. Lei gli ha detto: “Agisci con intelligenza. Loro hanno tutto, tu non hai niente. Non farmi piangere un figlio morto”. Da lì è nata tutta la riflessione e la teorizzazione della resistenza nonviolenta, che poi è stata trasmessa agli altri membri della comunità. Così è nato il Comitato di Resistenza Popolare di At-Tuwani e piano piano il movimento si è espanso anche negli altri villaggi. At-Tuwani poi ha potuto dimostrare che questa forma di resistenza era anche vincente perché in questo modo è riuscita a ottenere il piano regolatore e di conseguenza la corrente elettrica, l’acqua, ecc., vedendo migliorare decisamente la vita quotidiana degli abitanti. Dicevi che in queste comunità, nonostante tutto, si trova anche la forza di ridere. È così. Ridono tantissimo, soprattutto le donne quando si trovano tra di loro, ed è una risata contagiosa. In generale, i momenti di socialità sono bellissimi perché sono sempre accompagnati da queste grandi risate. Anche subito dopo momenti di forte tensione. Probabilmente è una modalità molto spontanea, che però tiene alto il morale. Io la vedo pure come una forma di riscatto. Come dire: questa occupazione coloniale mi sta togliendo tutto, ma io resto qui perché sono parte di questa terra. A me questo aspetto piace molto, sarà che non sono una persona che ride tanto nella vita, invece quando sono in Palestina rido tantissimo. Ti trasmette quel senso di dire: “Dopo tutto quello che ho vissuto oggi, se riesco ancora a ridere, vuol dire che siamo ancora qui e che non molliamo”. Lo volevo dire perché secondo me fa parte anche questo della resistenza nonviolenta! (a cura di Barbara Bertoncin. Le foto di queste pagine, fino a p. 21, sono di Operazione Colomba e si riferiscono a Masafer Yatta ) israele-palestina
una città 12 Sameeha Hureini, giovane palestinese, è impegnata nel movimento nonviolento Youth Of Sumud (Gioventù della Perseveranza), vive ad At-Tucani nell’area di Masafer Yatta, in Cisgiordania. Sono una giovane attivista del villaggio di At-Tuwani. Vengo da una famiglia che ha una lunga storia di lotta nonviolenta. Tutti i miei familiari sono militanti, a partire da mia nonna e poi mio padre, i miei fratelli, mia madre e mia sorella. Abbiamo sempre creduto e ci siamo impegnati in questa forma di resistenza. Il nostro villaggio si trova nell’area meridionale della Cisgiordania, ci vivono circa 400-500 persone; è la porta d’accesso a Masafer Yatta. L’area si espande sui confini della Linea verde del ’48. Le persone sono sparse in piccoli agglomerati, molte sono costrette ad abitare in delle grotte a causa dell’oppressione del controllo israeliano che non permette loro di avere il permesso di costruire una casa normale. Il mio villaggio ha un piano regolatore di circa trenta dunum, cioè tre ettari. Questo significa che all’interno ci è permesso avere abitazioni e alcune infrastrutture. Abbiamo ottenuto questo dopo una lunga battaglia, durata oltre dieci anni, con i tribunali israeliani, e grazie a un forte sostegno internazionale. Qui almeno abbiamo delle case, l’acqua, l’elettricità. Ma nel resto dei villaggi, più di trenta comunità, la gente vive in condizioni precarie a causa dell’occupazione israeliana. I coloni che vivono vicini ai villaggi palestinesi affermano che noi non abbiamo il diritto di stare qui; prendono di mira le persone giorno e notte. È così da molti, molti anni. Io sono cresciuta assistendo agli interventi dei soldati volti a “ripulire” etnicamente la zona di Masafer Yatta. Nel 2004 e anche nel 2006, hanno cercato di costruire un muro di apartheid all’ingresso del nostro villaggio. In questo modo volevano separare quest’area dalle altre zone della Cisgiordania e dalla città di Yatta. La gente ha fatto molte manifestazioni e grazie al sostegno internazionale è riuscita a far spostare il muro dell’apartheid. Ma le minacce di pulizia etnica continuano. Dopo il 7 ottobre, gli attacchi si sono fatti più intensi. È una situazione davvero critica quella che stiamo vivendo. D’altra parte noi non abbiamo altra scelta… Puoi raccontarci come si svolge la vostra vita quotidiana? È una routine un po’ spaventosa perché viviamo molto vicini agli insediamenti. I coloni sono sempre qui in giro e le minacce sono quotidiane. Gli internazionali accompagnano i bambini, perché per raggiungere la scuola devono attraversare le colonie. Qui i bambini si svegliano presto al mattino e attraversano gli insediamenti dove ci sono questi coloni estremisti e al pomeriggio rifanno lo stesso percorso. Oramai ci sono colonie accanto a ogni villaggio. Poi c’è il problema dei contadini e dei pastori che devono poter accedere alla loro terra per coltivarla e prendersi cura del loro gregge. In questi villaggi non ci sono altre occupazioni. Per fare altro, bisogna trasferirsi in città. Purtroppo proprio la terra è ciò che ci viene tolto: ci sono continue confische per via dell’espansione degli insediamenti a cui assistiamo giorno dopo giorno. La sfida, ogni mattina, è quella di riuscire a raggiungere il campo. Gli internazionali si occupano anche di accompagnare i contadini e i pastori affinché possano svolgere le loro attività quotidiane. Bisognerebbe che la gente sapesse cosa sta succedendo qui. Per fortuna nel nostro villaggio siamo riusciti a costruire una scuola internamente, ma i bambini dei villaggi circostanti devono venire fino a qui. Io ho potuto studiare vicino a casa. Tanti miei compagni di classe non erano così fortunati. Li vedevo quando arrivavano in inverno affrontando il freddo e d’estate sotto il sole. Vedevo quant’era duro per loro. Il desiderio di studiare qui è molto forte; servono molto coraggio e tanti sacrifici. Purtroppo, da quando è scoppiata la guerra, le scuole sono state chiuse per mesi. La situazione era folle: sparavano e attaccavano ovunque. Questi bambini hanno già perso un anno di scuola. Questa è la nostra vita quotidiana. Il comportamento dei soldati è cambiato nel corso del tempo? Sembra che ci sia stato un avvicinamento tra esercito e coloni... Non è cambiato poi molto. Certo, oggi capita che i coloni indossino la divisa e vadano ad attaccare la gente, sparando come se fossero parte dell’esercito o comunque sotto la protezione dei soldati. Comunque noi è da quando siamo bambini che assistiamo a incursioni notturne, diurne, agli arresti. Forse ora la gente inizia a capire cosa abbiamo vissuto negli ultimi settant’anni, cos’è l’occupazione israeliana e come questa gente si comporta con quelli che sono dei semplici civili, dei contadini. Io stessa ho visto i coloni, ma anche i soldati, attaccare mia nonna, aggredire mio padre, arrestarlo, sparare ai miei fratelli, fare irruzione nella casa della mia famiglia, bruciare i nostri campi, portarci via la terra, abbattere i nostri alberi. L’hanno fatto per anni. Dopo il 7 ottobre, la guerra è stata usata come alibi per dare legittimità a queste azioni compiute sotto gli occhi della comunità internazionale. Purtroppo il popolo palestinese non ha alcuna protezione da ciò che queste persone stanno facendo. Francamente non so cosa pensare, perché non credo che la comunità internazionale, il mondo in generale, abbia bisogno di qualcosa di più di quello che sta accadendo a Gaza per muoversi. E tuttavia ancora non si muovono. Questo permette ai coloni e agli estremisti di continuare ad agire come se i palestinesi non avessero il diritto di esistere. Che vuol dire aggredire, uccidere. Noi ogni giorno documentiamo quello che succede sui nostri social: mostriamo come i coloni si comportano con le nostre famiglie, con le donne, con i bambini. Non possiamo paragonare quello che stiamo vivendo a quello che sta accadendo a Gaza perché là è già un genocidio. Anche in Cisgiordania però uccidono persone, demoliscono case, bombardano… ogni giorno. Quindi, per rispondere alla tua domanda, non è una novità per noi vedere i coloni prendere un’arma e mettersi a sparare alla gente. È da quando siamo bambini che israele-palestina Crescere in una famiglia capeggiata da una nonna, mancata da poco, che ha attraversato tante guerre, ma non ha mai smesso di trasmettere ai figli e nipoti il messaggio, non solo che quella terra appartiene a loro e nessuno riuscirà a mandarli via, ma anche che solo con la nonviolenza riusciranno davvero a vincere. Una quotidianità fatta di provocazioni e attacchi, anche mortali, dove i soldati non si distinguono dai coloni. Intervista a Sameeha Hureini. NOI NIPOTI... i coloni indossano la divisa e attaccano la gente, sparando come se fossero parte dell’esercito...
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