israele-palestina una città 10 i palestinesi, ma gli internazionali, infatti ci sono stati una serie di arresti mirati. Le strategie sono sempre molto difficili da decifrare. Sicuramente oggi il senso di impunità è forte e diffuso, per cui anche il nostro ruolo di deterrente attraverso l’uso della fotocamera è ridimensionato; l’impressione è che possano fare quello che vogliono. Se la comunità internazionale non reagisce a quello che sta succedendo a Gaza, che è ormai un genocidio in diretta, la sprangata di un colono contro un palestinese non fa neanche notizia. La nostra presenza ormai serve principalmente a non far sentire abbandonati le comunità palestinesi. Subito dopo il 7 ottobre è stato terribile perché erano rimasti soli e molti hanno veramente pensato che li avrebbero ammazzati, tutti perché la violenza dei coloni era fuori controllo. I primi a tornare sono stati gli israeliani, poi Operazione Colomba a cui in seguito si sono aggiunti quelli dell’International Solidarity Movement. Come nasce questa scelta di una resistenza nonviolenta? I giovani attivisti con cui ho parlato non si sentono rappresentati da Hamas, né dalla Jihad islamica, ma neanche, per esempio, da Marwan Barghouti. Gli riconoscono un potenziale ruolo di unificatore, però parlandone mi hanno proprio detto: “Lui è un resistente armato e quindi non ci rappresenta perché noi abbiamo scelto un’altra strada”. Questa è una comunità che ha scelto la nonviolenza. Forse c’è qualche famiglia più tradizionale che sostiene Hamas, ma sono casi isolati, anche perché parliamo di una società abbastanza laica, dove i comitati di resistenza popolare sono una realtà molto presente e attiva, anche se non hanno molta visibilità, perché non sono un partito. Hanno una forma di organizzazione molto orizzontale con rappresentanti all’interno delle comunità. Fanno molto lavoro di base e operano a un livello diverso da quello della rappresentanza politica tradizionale, che peraltro in Palestina è molto corrotta. Ecco, loro sono fuori da queste dinamiche, poi ovviamente ogni villaggio ha una sua fisionomia, ma direi che la maggioranza non è affiliata a nessun partito, anzi non ne vuole sapere... Aggiungo che in questa scelta, il ruolo delle donne è stato fondamentale, anche se spesso meno visibile. Intanto, pur essendo una società patriarcale, le donne si ritagliano ampi spazi di autonomia. Mettono su cooperative di lavoro che, oltre a permettere loro di portare a casa un reddito, sono anche un luogo d’incontro e di confronto politico. A volte, nelle loro riunioni, discutono proprio di strategie di resistenza. In generale comunque in Palestina le donne hanno titoli di studio superiori agli uomini. La loro presenza è cruciale anche nelle azioni sul campo. Mi è capitato di vedere tutte queste donne schierate a fare resistenza alle aggressioni dei coloni; spesso poi creano scompiglio quindi sono anche un elemento di distrazione, oltre che di abbassamento della tensione. Sfruttano il “vantaggio” di subire meno ripercussioni del capofamiglia o dei giovani; volgono in loro favore la poca considerazione loro riservata. Le ho viste anche, nella confusione da loro stesse creata, riprendersi gli uomini che avevano già le fascette ai polsi per essere arrestati e portati via. Cose che solo le donne possono fare! La scuola di At-Tuwani è stata costruita grazie all’intuizione di donne come la mamma del regista Basel Adra, che sanno giocare sulle linee di discriminazione. In quel caso l’idea delle donne era stata di accentrare l’attenzione su di loro e i bambini, mentre gli uomini, di notte, innalzavano i muri dell’edificio... dopo tutto quello che ho vissuto oggi, se riesco a ridere, vuol dire che siamo ancora qui e che non molliamo lei gli ha detto: “Agisci con intelligenza. Loro hanno tutto, Tu non hai niente. Non farmi piangere un figlio morto”
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