Una città n. 312

una città 17 Per loro gli ebrei sono i colpevoli. Dicono: “Noi non abbiamo niente a che fare con l’Olocausto. È colpa dei tedeschi, degli europei”. Questo per dire che entrambe le comunità hanno problemi con questa idea. “Non me ne sono mai pentita”, mi ha detto Genya nel nostro incontro dell’ottobre 2016. È successo a Jaffa nel gennaio del 1949. L’Agenzia ebraica diede a lei e a suo marito Henryk la chiave di una casa palestinese a Jaffa e disse loro: “Questa è la vostra casa”. “Arrivati a Jaffa -mi ha raccontato Genya- la casa non era lontana dal porto. Era una casa chiusa da una recinzione. Abbiamo aperto il cancello, la porta, siamo entrati e... non potevamo credere ai nostri occhi. Eravamo sotto shock. La casa era bellissima, ma non siamo nemmeno entrati perché nel cortile c’era un tavolo rotondo apparecchiato, con dei piatti. Appena l’abbiamo visto, ci siamo spaventati. Ma al di là della paura, non potevamo guardare, ci faceva male. Com’era possibile? Ci ricordava come avevamo dovuto lasciare la nostra casa e tutto il resto quando erano arrivati i tedeschi e ci avevano gettato nel ghetto. E qui la situazione era la stessa: non potevamo restare. Non volevo fare la stessa cosa che ci avevano fatto i tedeschi. Ce ne andammo e restituimmo la chiave”. Genya Gilbert era nata nel 1919 in Polonia, vicino a Lodz. Dopo l’occupazione nazista, nel settembre 1939, era sopravvissuta all’Olocausto nel ghetto di Lodz. Tutta la sua famiglia era morta. Nell’estate del 1944 fu inviata ad Auschwitz in un trasporto di cinquecento donne. Dopo una settimana di permanenza nel campo, il trasporto fu destinato allo sterminio. Mentre le donne aspettavano nude di entrare nella camera a gas, un soldato apparve su una motocicletta con l’ordine di mandarle alla fabbrica di munizioni Krupp, vicino a Berlino. Nell’aprile del 1945 fu tra le mille donne ebree che arrivarono in Svezia nell’ambito di un accordo tra Heinrich Himmler, capo delle Ss, e la Croce Rossa. La fine della guerra la trovò, tra tutti i posti possibili, a Norrköping, in Svezia. Henryk Kowalski nacque a Wloclawek, nella Polonia centrale, nel 1922. I nazisti entrarono in città alla vigilia dello Yom Kippur e bruciarono tutte le sinagoghe. In alcuni casi con gli ebrei all’interno. La sua famiglia fu uccisa nel campo di sterminio di Chelmno. Sopravvisse come “schiavo” in una miniera di carbone e, alla fine della guerra, fu trasferito dalla Croce Rossa in Svezia. Pesava 28 chili. Genya e Henryk si incontrarono a Norrköping, si sposarono e immigrarono in Israele nel gennaio del 1949 su una nave chiamata Independence. Questa è l’esperienza che portavano con sé quando sono entrati nel cortile con un tavolo rotondo imbandito. “Perché siete tornati indietro a restituire la chiave?”, ho chiesto. “Perché non siamo entrati?”. Henryk quasi affermò più che chiedere. “I tedeschi ci hanno cacciato nel ghetto e ora volevano darci una casa di arabi che erano stati costretti ad andarsene lasciando il cibo in tavola? È la stessa cosa che hanno fatto a noi”. “È stato qualcosa di istintivo”, disse Genya con calma e convinzione. “Non voglio vivere in una casa di persone che sono state buttate fuori. Per me un essere umano è un essere umano”. Genya e Henryk Kowalski si sono trovati a cavallo tra l’astuzia della storia, che sfugge al nostro controllo, e la scelta morale dell’individuo. La storia li ha portati prima a perdere la loro casa e a patire l’Olocausto, e poi, per un amaro scherzo del destino, ha dato loro la possibilità di una ripartenza simbolica e materiale, andando a vivere in una casa di palestinesi che a loro volta erano stati costretti a lasciare la loro casa. A ben pensarci, la storia ha posto loro davanti un vero e proprio patto faustiano: ingiusto non solo per il dolore che provoca, ma anche per le ricompense che offre. I Kowalski rifiutarono l’offerta, esercitando la loro scelta morale individuale. Così facendo, hanno compiuto un gesto eccezionale. Ogni periodo storico offre le sue dissonanze: qualcosa che accade realmente, ma che sembra totalmente incongruente con le condizioni del tempo e che quindi mette a dura prova la nostra narrazione e interpretazione del passato. Pochi ebrei hanno fatto resistenza alla Nakba e meno ancora hanno rifiutato l’offerta di ricevere una casa palestinese abbandonata. Non esiste una lista di “giusti” tra gli ebrei, quando si parla della pulizia etnica che è stata la Nakba. Ma è proprio qui che risiede il potenziale del gesto dei Kowalski, perché essi hanno provocato una crepa nel corso degli eventi storici e hanno messo in discussione ciò che era ed è considerato normale e normativo. La virtù del loro gesto sta proprio nella sua dimensione personale. Si tratta di un piccolo atto che parla chiaro, un atto privato che segnala tendenze pubbliche più ampie. Non ha cercato la pubblicità o il gesto imponente dal significato storico. Non emerge da alcune tendenze generali della memoria collettiva israeliana sull’Olocausto o da commemorazioni statali dal tono predicatorio. Anzi, a mio modo di vedere, quel gesto sputa in faccia a una storia che prima li ha resi profughi e poi vorrebbe offrire loro un risarcimento lucrando sulla situazione di altri profughi. A partire da questa storia, vorrei fare tre considerazioni. La prima riguarda la storia e la memoria. L’elemento più radicale del progetto di Bashir e Goldberg è la piccola parola “e” che collega l’Olocausto e la Nakba. Alcune persone e alcuni ebrei e palestinesi si oppongono a questo collegamento per una serie di ragioni morali e politiche. Io però sono uno storico con un’inclinazione culturale, interessato all’esperienza soggettiva delle persone nel passato. Ebbene, dal 1948 la gente ha collegato incessantemente i due eventi. La questione per me, in termini di metodo storico, teoria ed etica, non è quindi se collegare i due eventi, ma come farlo in modo illuminante. L’Olocausto e la Nakba, una volta che quest’ultima si è verificata, sono venuti al mondo intrecciati, ognuno dando significato e senso all’altro. Il legame tra i due eventi ha creato una tradizione culturale tra gli ebrei israeliani e gli ebrei in generale, e forse anche oltre. La nostra immaginazione storica collega a volte eventi diversi perché, unendoli, ci dicono qualcosa di importante su chi siamo, da dove veniamo, come siamo arrivati qui e dove stiamo andando. Questo è il legame essenziale tra l’Olocausto e la Nakba nella cultura ebraica israeliana dal 1948 a oggi. I Kowalski sono stati tra i primi a prendere parte a questa tradizione, a loro insaputa. Sto lavorando a un libro sul 1948 in Palestina. La struttura narrativa si basa su diari, lettere e storia orale. Gli ebrei in guerra parlavano incessantemente del legame tra l’Olocausto e la Nakba. Nel suo classico racconto “Khirbet Khiza” (Le rovine di Khiza. Vedi in: Brutti ricordi. Il dibattito in Israele sulle espulsioni di palestinesi nel 1948-1949. Ed. Una Città, 2007), apparso nel 1949, quando gli echi della battaglia non si erano ancora placati, l’autore ebreo israeliano S. Yizhar descriveva i palestinesi espulsi come “un gregge spaventato e compiacente e silenzioso e gemente”, alludendo alla metafora che serviva a descrivere gli ebrei che durante l’Olocausto erano come un gregge da macellare. Poco dopo, nel 1952, il poeta israeliano Avot Yeshurun scrisse una poesia sconvolgente intitolata “Passover On Caves” (Pasqua nelle grotte), apparsa sul principale quotidiano israeliano “Haaretz”. In seguito lo descrisse con le seguenti parole: “L’Olonon esiste una lista di “giusti” tra gli ebrei, quando si parla della pulizia etnica che è stata la Nakba eventi che ci dicono qualcosa su chi siamo, da dove veniamo, come siamo arrivati qui e dove stiamo andando israele-palestina

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