una città 19 per un futuro di giustizia e umanità a Jaffa e oltre. In terzo luogo, vorrei fare una considerazione sulle vittime che generano altre vittime. I Kowalski hanno raggiunto un delicato equilibrio con le loro memorie. Mi riferisco alla capacità di ricordare le proprie sofferenze durante l’Olocausto, riconoscendo al contempo le sofferenze causate dagli ebrei ad altri. Questa visione contraddice le norme e i valori chiave della società ebraica israeliana, perché immagina che il comportamento umano sia una commistione di virtù e vizi complementare, non contraddittoria. Questo è l’equilibrio più difficile da raggiungere nella società israeliana di oggi, forse, perché la maggior parte degli ebrei usa comunemente il ricordo dell’Olocausto per cancellare o sminuire il ricordo della Nakba e la responsabilità ebraica. L’atto dei Kowalski rappresenta una sfida alla storia e alla memoria dell’Olocausto, perché è un grande atto di rifiuto del ricorso all’Olocausto per legittimare le ingiustizie verso i palestinesi. C’è una visione della storia e della memoria che rifiuta un gioco di identità a somma zero in cui il mondo è diviso nettamente tra vittime e carnefici, affermando che a volte vittime e carnefici risiedono nella stessa persona e nello stesso gruppo. Resiste alla pretesa fatta in nome dell’Olocausto sulla singolarità della sofferenza ebraica, sull’eternità del vittimismo ebraico e sulla nascita immacolata dello Stato di Israele. Il loro atto dichiara, sussurrando e non gridando, l’obbligo morale della vittima verso le altre vittime, in particolare verso le vittime causate dalle proprie azioni, obbligo che lo Stato di Israele ha negato nei confronti dei palestinesi fin dal 1948. Tale obbligo è considerato nella società israeliana come un tradimento. Se non addirittura come negazione dell’Olocausto. Riconoscere che le vittime ebree durante l’Olocausto potevano essere carnefici nel 1948 non sminuisce l’Olocausto, così come il vittimismo ebraico durante l’Olocausto non giustifica la Nakba. Ci rende più -e non meno- umani, fallibili e vulnerabili come noi tutti siamo. [...] Permettetemi di concludere con Genya e Henryk. Il loro atto è un invito a entrare nella casa di Jaffa per scoprire la famiglia che vi abitava, i bambini che correvano in cortile, per raccontare la storia delle vittime della guerra del 1948, delle loro vite, interrotte proprio come quelle delle vittime dell’Olocausto. Genya e Henryk non ricordavano, dopo tanti anni, dove si trovasse esattamente quella casa, ma io, come storico che ricostruisce il passato, ho la possibilità di entrare nella casa di Jaffa e poi nella casa di ogni vittima della violenza di massa, per raccontare la storia di quelle persone, insieme a quella di Genya e Henryk, dando voce a chi se n’è andato in fretta e furia lasciando i piatti sul tavolo. È questo forse il lascito delle parole di Genya, quando dice: “Non me ne sono mai pentita”. un grande atto di rifiuto del ricorso all’Olocausto per legittimare le ingiustizie verso i palestinesi
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