Una città n. 312

una città 25 flitti interetnici, la guerra in Cecenia, il terrorismo… Così, all’inizio degli anni Duemila, quando è arrivato Putin con lo slogan “meno libertà e più sicurezza” i russi lo hanno votato. Per questo dico che i russi hanno restituito volontariamente la libertà. Io credo che chi ha votato Putin sapesse benissimo che avrebbe imposto il pugno di ferro. Quanto sarebbe stato duro quel pugno sarebbe stato difficile immaginarlo anche per i politologi, figuriamoci per l’elettore comune. Comunque, avevano perfettamente intuito che con Putin ci sarebbe stata meno libertà, e gli andava bene. Si chiamava “ordine”, un altro classico del discorso russo: l’ordine è quando il criminale va in galera, le donne sono donne e gli uomini sono uomini. Insomma, credo che per la maggior parte delle persone che l’hanno votato la scelta fosse ovvia: meno libertà, soprattutto politica e più protezione, sia militare-poliziesca, ma anche sociale ed economica. Putin questa cosa fino a un certo punto l’ha assicurata. Dopo venticinque anni, però, ha tolto all’improvviso tutte le sicurezze. Oggi i russi hanno scoperto che i loro figli possono essere mandati in guerra, o che si possono perdere i risparmi o le pensioni perché c’è bisogno di carri armati, e che all’improvviso si può viaggiare solo in Cina e in Turchia. Ma questo è successo quando ormai non potevano più esprimersi. Venendo all’Ucraina, da tempo ragioni sulla biforcazione, sulle diverse strade che hanno preso i due paesi, uno che guarda ai giovani, al futuro, e l’altro rivolto al passato... Credo che la cosa più importante che ho fatto a partire dal 2019 sia stata andare in Ucraina e studiare il fenomeno Zelensky, in un momento in cui il resto del mondo, non “Abbiamo ascoltato i nostri padri, abbiamo ascoltato le nostre madri: ci è piaciuta di più la storia delle nostre madri” Alamy/Dino Fracchia

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