una città 29 ca per Rastello e anche per il movimento in quegli anni? Fra l’altro lui si sofferma sulle responsabilità dell’Europa e della comunità internazionale, oltre a quelle locali, per quanto riguarda questo genocidio. Lui conosceva dei sopravvissuti, perché ne La guerra in casa parla di queste ragazze che avevano informazioni da dentro l’assedio, che raccontavano come era stato, come era nata l’enclave di Srebrenica e poi com’era caduta. Srebrenica -di cui ora ricorre il trentesimo anniversario- è stata un grande tradimento delle Nazioni Unite, non so se in particolare dell’Europa, sicuramente dell’Onu, perché era una enclave protetta che non è stata difesa. Si proteggeva in qualche modo da sola, perché le caratteristiche del territorio avevano fatto in modo che i musulmani che erano convogliati a Srebrenica nei primi mesi dell’attacco da parte delle nazionalisti serbi erano riusciti a costruire delle linee di difesa molto efficaci, poi a un certo punto le Nazioni Unite le hanno fatte smantellare promettendo un intervento aereo della Nato a difesa dell’enclave che non è mai avvenuto. Quindi sono entrati i serbi e nei giorni successivi c’è stato il genocidio di oltre ottomila persone. Questi fatti ora hanno anche la dignità della verità giudiziaria, perché Srebrenica è stato riconosciuto come genocidio da diverse istanze giuridiche internazionali, sia della Corte Internazionale di Giustizia nel 2007, ma anche dal Tribunale Penale internazionale per la ex Jugoslavia che ha confermato l’accusa di genocidio in diversi processi contro la leadership serbobosniaca politica e militare, ma anche contro gli ufficiali dell’esercito serbo-bosniaco; ebbene, tutto questo negli anni Novanta, subito dopo Srebrenica, non era così chiaro, c’era tantissima disinformazione e un atteggiamento molto ideologico da parte della stampa italiana in particolare. La verità era mascherata da una nebbia in cui non si capiva bene quali fossero le responsabilità, quali fossero le dimensioni di ciò che era successo nei giorni successivi alla caduta dell’enclave, e su tutto questo si ergeva il lavoro di Luca Rastello che aveva una lucidità impressionante. Già subito in quegli anni, lui sapeva quello che era successo e lo diceva; e, in questo senso, quel libro, La guerra in casa, per la mia generazione è stato importantissimo. Mi hai raccontato di un viaggio che avevate fatto nel Caucaso insieme. In quegli anni c’è un’altra guerra che in Italia, e non solo, non interessava quasi nessuno, che è quella del Karabakh, che non arriva a un genocidio, ma a una serie di pulizie etniche tra gli anni Novanta e l’epoca più recente, da entrambe le parti. Eravate andati insieme ad Aghdam, la città che era stata rasa al suolo dagli armeni. Puoi parlarci di questo viaggio? Luca conosceva molto bene il Karabakh. Ci siamo stati insieme: per arrivarci avevamo percorso quello che allora era il corridoio di Lachin; eravamo passati da Shushi e poi eravamo andati a Stepanakert. A quel punto Luca aveva detto che dovevamo andare più avanti per capire meglio. Voleva andare ad Aghdam, però non si poteva perché c’erano dei checkpoint; l’unica strada era bloccata e per motivi di sicurezza non si poteva procedere. Non so come, conosceva una strada secondaria. Una volta arrivati, Aghdam ci ha fatto una grande impressione perché era una città allora completamente rasa al suolo e si vedeva a occhi nudi la linea del fronte con l’esercito azero più avanti. Quel viaggio mi ha fatto capire alcune caratteristiche del suo modo di viaggiare e di lavorare. Lui cercava sempre di stare molto vicino alla popolazione locale. Non so se ti ho raccontato questo episodio: cercavamo un posto dove dormire a Stepanakert e non si riusciva a trovarlo perché ovviamente non c’erano alberghi. A un tratto Luca torna tutto contento perché aveva trovato un pollaio -una baracca con delle galline e un paio di letti- da questo contadino presso cui potevamo stare; era felice come se avesse trovato un albergo a cinque stelle perché gli permetteva di stare insieme a questa famiglia armena, di entrare nella loro vita, e quindi di avere una prospettiva dall’interno rispetto a quello che succedeva. Luca aveva anche un’altra capacità: lui era partito con lo studio del ceco, per motivi letterari, ma era in grado di comunicare in tutte le lingue slave, e lì ovviamente usavamo il russo, lui con un discreto successo. Aveva anche questa qualità, oltre a un’innata predisposizione al contatto umano. Nel 2014 esce I buoni, un romanzo straordinario, ma anche assai controverso a causa del suo contenuto critico verso il mondo delle ong e del terzo settore. Dopo l’uscita del romanzo ci fu un dibattito molto aspro. Luca non aveva nessun problema a esercitare il diritto di critica anche nei confronti di figure considerate come dei santini -però sempre con il rigore dell’analisi giornalistica, e in quel caso con il registro del romanzo- per far capire che il mondo è sempre molto più complesso di come viene raccontato, e direi che questa intransigenza la rivolgeva anche nei suoi confronti. Una volta mi aveva parlato di come aveva iniziato a salvare la gente, i profughi, ad aiutare le vittime delle guerre in ex Jugoslavia; era stato assolutamente casuale: la cosa era nata in modo fortuito, non perché insomma lui fosse un buono, ma perché era successo così e poi, ovviamente, lui aveva proseguito con impegno. Un altro romanzo importante e a esso precedente, è Piove all’insù del 2006, che racconta gli anni Settanta, che lui ha vissuto molto giovane, da minorenne. Nello spirito corrosivo, chirurgico e spietato di Rastello, forse c’è qualcosa del ‘77, di questo movimento difficile da inquadrare, di cui è rimasto meno rispetto al ‘68, almeno come eredità istituzionale, ma dove c’era un grande potenziale creativo e anche un’energia che si trova nelle sue pagine. Piove all’insù secondo me è il suo grande romanzo. All’epoca, già conoscevo Luca, era mio amico, ci vedevamo, ci capitava di viaggiare insieme, ma non avevo ancora capito che scrittore fosse. Quando l’ho letto, ho capito che era a livello di Fenoglio, di Pavese, cioè dei grandi scrittori piemontesi che avevo letto da adolescente. So che ci ha lavorato a lungo, che ha fatto tante stesure; mi ha anche detto che il titolo che avrebbe voluto dargli non era Piove all’insù, che è uscito da una mediazione con l’editore Bollati Boringhieri, ma “One More Cup of Coffee”. Lui voleva chiamarlo così, da una canzone di Bob Dylan che gli piaceva molto. Amava la musica, ci confrontavamo molto anche su questo: avevamo alcuni miti in comune. “One More Cup of Coffee” era proprio tipico di Luca: quella canzone il cui ritornello suona “One more cup of coffee for the road / One more cup of coffee ‘fore I go / To the valley below” mi viene spesso in mente quando ripenso a Luca. Rappresentava il suo atteggiamento: andare sempre più in là, mettersi sempre in strada. Lui era un viaggiatore instancabile, senza tregua. Era un lettore vorace, ma era anche un viaggiatore vorace, perfino quando ha cominciato a stare male per il cancro. Quando sono stato nel Caucaso con lui, già non stava bene, ma non ha pensato fosse un limite alla volontà di viaggiare. Piove all’insù è anche uno dei pochissimi romanzi che l’Italia ha prodotto sul ’77, mentre siamo pieni di agiografie, riflessioni e saggi sul ’68. Lui si era concentrato sul ’77. Era un adolescente, però l’ha visto, l’ha conosciuto, e mi ha parlato molto anche del ’77 torinese. Certo, quello era un movimento, una ribellione molto più dispele Nazioni Unite avevano fatto smantellare le linee di difesa promettendo un intervento che non è mai avvenuto quel ritornello rappresentava il suo atteggiamento: andare sempre più in là, mettersi sempre in strada... in ricordo
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