no pacifista e comprendo la necessità di assicurare la sicurezza dei cittadini contro il terrore e alle frontiere (crollate purtroppo nell’ottobre di due anni fa). Ma credo che non abbiamo veramente cercato le possibilità diplomatiche e politiche per cambiare la situazione geopolitica e ridurre le ragioni dell’odio popolare tra gli arabi e i musulmani, su cui germoglia il terrore. La pace con l’Egitto, grazie al coraggio di Sadat e Begin, avrebbe potuto essere un ponte per procedere a un’integrazione progressiva dello Stato degli ebrei nel Medio Oriente. Mubarak, il successore di Sadat, ha per anni chiesto a Israele di continuare il processo, riducendo la minaccia (nucleare?) non convenzionale agli occhi dei vicini d’Israele e aprendo un possibile futuro per i palestinesi. Rabin fu convinto, pur reticente, alle trattative di Oslo coi palestinesi, che permisero la pace con la Giordania di Hussein, ma fu assassinato da un fanatico ebreo, come Sadat da fanatici islamisti. Il processo di pacificazione fu bloccato dal terrore degli estremisti ebrei e arabi e dall’espansione delle colonie ebraiche in Cisgiordania e nella striscia di Gaza. Queste ultime furono abbandonate nel 2003 da “Arik” Sharon, con decisione unilaterale e senza accordo coi palestinesi, chiudendo così due milioni e più di palestinesi, per lo più profughi già dal 1948, in quei 350 chilometri quadrati divenuti la più grande prigione all’aria aperta, dominata da terroristi fanatici e integralisti. Oltre alla perdurante pace fredda con l’Egitto e la Giordania, ci esaltiamo degli accordi di Abramo, promossi dalla precedente amministrazione Trump, con regimi monarchici non limitrofi, con cui ci sono interessi comuni, economici, militari e di intelligence contro l’Iran. Ma le due carte di valore in mano a Israele per promuovere l’integrazione nella regione sono appunto i territori occupati abitati da circa cinque milioni di palestinesi, sotto controllo militare israeliano più o meno diretto e totale, e l’arsenale non convenzionale, tenuto sotto un velo di opacità, ma temuto da tutti i paesi limitrofi. Si dice, per esempio, che il ministro della difesa israeliano, il generale Moshe Dayan, atterrito dall’attacco egiziano a sorpresa nel 1973, avesse proposto di fare uso dell’arsenale non convenzionale. Israele, tra l’altro, non è firmataria della convenzione Nnpt contro la proliferazione nucleare (assieme soltanto a India, Pakistan e Corea del Nord) e quindi non è sotto controllo internazionale. Dal punto di vista israeliano, purtroppo, sembra che nessuna delle due carte sia trattabile. L’anno scorso non meno di 99 parlamentari su 120, cioè un’unanimità di coalizione e opposizione assieme, esclusi gli arabi, hanno votato contro l’eventuale riconoscimento internazionale dello stato di Palestina, malgrado l’impasse nelle trattative dovuta a Israele. Pochi mesi dopo, 68 deputati della maggioranza, senza voti contrari dell’opposizione, eccetto appunto gli arabi, hanno bocciato la possibilità di uno stato palestinese a fianco d’Israele, anche se parte dell’accordo di pace multilaterale. E al nucleare nemmeno si deve accennare, dato che Israele è stata contraria alle trattative stesse, sia di Obama, sia adesso di Trump, fidandosi appunto solo della forza e della minaccia di reiterare l’attacco (pare adesso che il successo non sia stato così totale e irreparabile come proclamato). Né si osa accennare che proprio il ritiro di Trump dall’accordo firmato da Obama è stato ciò che ha permesso all’Iran di procedere all’arricchimento dell’uranio fino al 60%, al punto che nessuno osa chiedere a quale funzione civile possano servire i quattrocento chili di uranio così arricchito. Sotto l’incubo dell’Olocausto, la parola d’ordine è "mai più": ogni minaccia è esistenziale, ogni attacco è visto come potenziale distruzione dello Stato degli ebrei, ogni trattativa di compromesso viene respinta come se somigliasse a quello del Chamberlain del 1938 a Monaco. Mentre Israele è oggi una realtà economica, culturale e sociale irreversibile di otto milioni di ebrei, che può permettersi di rispettare i diritti democratici di una minoranza del 20% dei suoi cittadini, senza pericolo per la sua identità. È una potenza militare a livello quasi mondiale che può permettersi di trattare senza paura con i regimi della regione. Tanto più che gli interessi di questi paesi a stabilizzare la zona, a combattere i movimenti terroristici e a ottenere la fiducia dei loro popoli, invece di lasciarli in preda al fanatismo e all’estremismo, sarebbero identici a quelli israeliani. Tutto il contrario della situazione esistente subito dopo la creazione dello stato d’Israele nel 1948, con soli 650 mila ebrei, quando gli arabi ancora potevano sperare nella sua eliminazione come in una crociata. Quindi sarebbe l’ora di una revisione della dottrina di sicurezza israeliana, basata soltanto sulla forza. Dovremmo adottare una dottrina fondata su coalizioni di interessi regionali e internazionali e sull’apertura di canali di sviluppo economico, sociale e culturale, anche e anzitutto per i palestinesi: la loro identità nazionale si è formata durante il conflitto territoriale col sionismo e il loro diritto all’autodeterminazione non è meno legittimo di quello israeliano. Il suo riconoscimento potrebbe essere la base di trattative meno impari. Tanto più che le guerre ora non sono più tra gli eserciti in lizza e non vengono risolte con la capitolazione dei generali o dei governi: le guerre moderne colpiscono sempre più le popolazioni civili tra le quali, poi, i movimenti ideologici o fanatici trovano riparo, voluto o forzato. Eccetto per il caso della Cecenia, dovuto ai metodi di Putin, da anni non c’è esempio di guerra terminata con la vittoria della potenza militare e non del movimento irredentista o anticoloniale. Ma spesso la potenza militare si è trovata impantanata per anni in guerre di logoramento, terminate con la fuga del più potente e, a volte, con un risultato geopolitico peggiore di prima e con un paese lasciato a se stesso, smembrato da lotte interne senza fine. I veri pericoli esistenziali per la sicurezza di Israele, a breve e anche a lungo termine, sono i fanatici estremisti sia tra i musulmani, sia tra gli ebrei, che minacciano sia la coesione interna sia la possibile coesistenza pacifica di due società così fortemente intrecciate. Rimmon Lavi una città 3 UNA CITTA’ Redazione: Barbara Bertoncin, Stefano Ignone, Silvana Massetti, Giovanni Pasini, Paola Sabbatani, Gianni Saporetti (direttore), Giuseppe Ramina (direttore responsabile). Collaboratori: Katia Alesiano, Rosanna Ambrogetti, Oscar Bandini, Luca Baranelli, Michele Battini, Antonio Becchi, Alfonso Berardinelli, Sergio Bevilacqua, Guia Biscàro, Stephen E. Bronner, Giorgio Calderoni, Flavio Casetti, Marina Cattaneo, Alberto Cavaglion, Alessandro Cavalli, Giada Ceri, Luciana Ceri, Luciano Coluccia, Francesca De Carolis, Ildico Dornbach, Bruno Ducci, Fausto Fabbri, Roberto Fasoli, Adriana Ferracin, Bettina Foa, Vicky Franzinetti, Iacopo Gardelli, Liana Gavelli, Wlodek Goldkorn, Belona Greenwood, Joan Haim, Rimmon Lavi, Massimo Livi Bacci, Matteo Lo Presti, Giovanni Maragno, Emanuele Maspoli, Franco Melandri, Annibale Osti, Cesare Panizza, Andrea Pase, Edi Rabini, Alberto Saibene, Massimo Saviotti, Sulamit Schneider, Giovanni Tassani, Massimo Teodori, Massimo Tesei, Massimo Tirelli, Fabrizio Tonello, Michael Walzer, Simone Zoppellaro. In copertina: foto di Operazione Colomba. Hanno collaborato: Alberto Bordignon, Valentina Gacic, Bekir Halilovic, Anna Hilbe. Proprietà: Fondazione Alfred Lewin Ets. Editore: edit91 società cooperativa. Questo numero è stato chiuso il 25 agosto 2025.
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