una città 33 buone pratiche versati in tutti i modi da questa malattia, e sono costretti a costruirsi una specie di armatura per potersi difendere... Sono percorsi che durano per anni: una volta iniziato il lavoro terapeutico, non è detto che poi vada tutto liscio e che nel giro di poco si stia bene. I tragitti sono altalenanti, qualcuno va bene per un po’ di tempo, poi c’è una ricaduta, poi si ritorna a stare bene. Ci vuole del tempo per uscire da questo disturbo. Quindi il genitore viene molto provato. Noi organizziamo dei gruppi di auto aiuto. Una volta venivano solo le mamme, ora invece vengono anche i papà e verifichiamo che c’è una differenza di accettazione. I papà fanno più fatica a dire: “Mia figlia ha questo problema”. Pensano che sia impossibile. Puoi parlarci della componente maschile che viene colpita da questo disturbo? I casi sono in aumento, adesso siamo su una percentuale del 7%. I maschi presentano gli stessi disturbi, ma si approcciano in modo diverso, si nascondono di più tramite lo sport, sono quasi sempre iperattivi. Si parla molto del ruolo dei social... Un’altra cosa che ci tengo a dire è che l’aumento dei casi non è imputabile ai social, come invece molti affermano. Questi disturbi ci sono da molti anni. Sappiamo che l’anoressia ha un’origine che risale molto indietro nel tempo. La bulimia invece è stata diagnosticata più tardi, negli anni Settanta, quindi ha una storia più recente. Oggi qual è la differenza? Che se una volta lo sapevi dai giornali o dalla Tv, perché qualche modella ne era affetta, ora invece sono i social a trasmettere l’informazione. Ci sono addirittura degli influencer sui disturbi alimentari. Non lo fanno per un guadagno economico, però quello che fanno è terribile. Dietro non c’è infatti uno scopo educativo, informativo nel senso buono; non è un modo per condividere e per fa sì che altri non ci caschino dentro. Tutt’altro: queste ragazzine mostrano con soddisfazione quante ore di attività fisica fanno; alcune arrivano a farsi vedere con il sondino, mentre sono in ospedale. Queste cose certo non aiutano, occorre stare molto attenti. Detto questo, non sono i social ad aver portato a un aumento dei casi, e nemmeno la pandemia. Perlopiù parliamo di persone che già stavano male, dopodiché il Covid ha fatto esplodere la situazione. Durante il lockdown siamo stati tutti costretti a rimanere chiusi in casa. Immagina cos’ha voluto dire per una persona con questi disturbi, all’improvviso senza alcuna privacy, obbligata a dividere gli spazi abitativi con gli altri, a mangiare senza la possibilità di compensare… Questa cosa è stata potente. Noi ad esempio come associazione durante il covid abbiamo continuato a fare i gruppi di auto mutuo aiuto online, proprio perché le famiglie non potevano non incontrarsi, anzi durante la pandemia abbiamo ospitato gente anche da molto lontano. Sui disturbi alimentari, poi, non esiste una cura unica, ogni centro ha messo a punto un proprio metodo, quello di Vicenza è diverso da quello di Villa Garda o di Portogruaro, ciascuno ha le sue peculiarità. L’importante è mettersi nelle mani di persone competenti e non perdere tempo prezioso. Aggiungo una riflessione. Chi intraprende un percorso di cura, alla fine sarà una persona diversa da quella che era prima della malattia, perché ha dovuto lavorare dentro di sé. Noi genitori abbiamo spesso l’illusione che quando nostra figlia guarirà, tornerà quella di prima. Dobbiamo sapere invece che arriverà una persona diversa e che dovremo accettarla. Sarà un persona con una cicatrice, perché non è che non sia successo niente: c’era una ferita, che è stata guarita, quindi la cicatrice non è qualcosa di cui vergognarsi, ma il segno che qualcosa è stato superato. Mia figlia oggi è diversa, ma perché, per stare meglio, è stata costretta a cambiare. La malattia ha provocato dei cambiamenti che la rendono, per certi versi, anche migliore, con un minimo di sicurezza in più, quindi capace anche di dire no, mentre prima sentiva di dover sempre dire sì, ma per paura di scontentare gli altri. Voi siete riusciti a costruire un modello collettivo di ascolto e sostegno su un problema ancora tabù, segnato dall’isolamento, dalla vergogna... In questi anni ho conosciuto tante realtà che si occupano di salute mentale. Quello che ho imparato è che intanto l’informazione rende liberi, di agire, di scegliere, ecc. e quindi è fondamentale. Noi abbiamo quattro sportelli di ascolto. E poi ci sono i gruppi di auto aiuto. Il genitore durante il lavoro nel gruppo si trasforma. Io dico sempre che, se facessi una foto della mamma o del papà al loro arrivo, e gliela facessi vedere dopo sei mesi, ma anche dopo due o tre incontri, si vedrebbero già delle persone diverse. La condivisione, il poter dire a un altro come ci si sente è un aiuto davvero prezioso. Il gruppo serve proprio ai familiari; alla figlia e al figlio ci pensano i terapeuti. È uno spazio in cui, per un paio d’ore, puoi parlare, ascoltare, puoi anche piangere perché quello è il tuo stato d’animo; è un luogo di ascolto attivo, in cui ci si scambiano suggerimenti, si riflette assieme, si fanno decantare le cose. Quando poi si torna a casa ci si ripensa, si parla con il partner, con i figli stessi, si possono coinvolgere altre persone nel confronto. Che tipo di suggerimenti avete raccolto in questi momenti di mutuo aiuto? Quando i genitori portano il proprio figlio o figlia al centro, c’è il desiderio e la speranza che le cose cambino velocemente, invece la prima cosa da imparare è di non avere fretta. Quando si vede il ragazzo o la ragazza che stanno chiusi in camera, sul divano, che non vogliono fare niente, l’impulso è di proporre mille cose, per scuoterli, per vederli reagire. Di nuovo: non funziona così. Noi cerchiamo di dare qualche orientamento su come comportarsi; ovviamente non è un suggerimento terapeutico, però è un insegnamento che arriva dalla nostra esperienza. Bisogna anche stare in guardia da aspettative eccessive, che rischiano di assorbire energie che potresti dedicare ad altro. Proprio perché il cammino è lungo, è necessario non spendere un sacco di energie su qualcosa che in quel momento non funziona. Poi è necessario saper accogliere la rabbia, che tante volte è enorme; non si deve reprimerla o ignorarla. A volte è importante anche riuscire ad ammettere di non poterne più, di aver bisogno di qualche giorno per staccare, per allontanarsi da una situazione che fa troppo male. Altri suggerimenti possono riguardare il comportamento da tenere quando si è a tavola: ad esempio, rispettare al grammo il piano alimentare perché se no viene meno la fiducia; non comprare abiti in questa fase, perché se in quel momento lui o lei è molto magra, la prima cosa che succede quando si recupera un po’ di peso sarà di sentirsi grassi e di riprendere con la restrizione del cibo. Ma come si tiene assieme questa cosa dell’imparare a non avere fretta con la paura della gravità della malattia e della sua progressione? Ovviamente dipende dalla gravità della situazione. Detto questo, in generale non bisogna aspettarsi che, iniziato un trattamento, si vedano subito i risultati, o che, tornati a casa dopo un ricovero, sia tutto a posto. Bisogna abbassare le aspettative del genitore che vorrebbe che le cose cambiassero subito e che è portato a pensare che più cose fa, più veloce arriva il cambiamento. chi intraprende un percorso di cura, alla fine sarà una persona diversa da prima della malattia suggerimenti possono riguardare il comportamento da tenere a tavola, il non comprare abiti in questa fase
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