una città 4 FAME, SETE E PALLOTTOLE All’inizio di maggio 2025, il gabinetto di sicurezza israeliano ha approvato il piano “Carri di Gedeone”, con l’obiettivo di “conquistare” la Striscia di Gaza, “stabilirvisi”, eliminare Hamas, liberare gli ostaggi e trasferire la popolazione palestinese in una piccola area nella parte meridionale dell’enclave. Tra le altre misure, il piano prevede un programma di distribuzione di aiuti umanitari, affidato alla Gaza Humanitarian Foundation (Ghf), un’organizzazione privata registrata nel Delaware poche settimane dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca. La Ghf, che nelle intenzioni del governo israeliano sostituisce le agenzie delle Nazioni Unite e le ong internazionali ha iniziato il suo intervento alla fine di maggio. Le notizie sul nuovo partner “umanitario” sono scarse. Non si sa quale governo abbia fornito i fondi per avviare le attività della Ghf nel primo mese, ma sappiamo che a giugno gli Stati Uniti hanno destinato 30 milioni di dollari alla fondazione e che il suo presidente è il reverendo Johnnie Moore, ex consigliere della campagna per la rielezione di Donald Trump e uno dei leader dei cristiani evangelici che, negli Stati Uniti, costituiscono il movimento più influente e numeroso di sostenitori di Israele. Nelle undici settimane precedenti, Israele aveva proibito l’ingresso nella Striscia di qualsiasi forma di aiuti umanitari riducendo -non per la prima volta- l’intera popolazione palestinese alla fame. Secondo l’Integrated Food Security Phase Classification (Ipc), lo strumento utilizzato da tutte le organizzazioni umanitarie per descrivere la natura e la gravità delle crisi alimentari, a maggio la maggioranza della popolazione palestinese di Gaza si trovava in una condizione d’insicurezza alimentare classificata tra 4 e 5, dove quest’ultima (Ipc5) denota uno stato di carestia e crisi umanitaria catastrofica (Fig. 1). In pratica secondo l’Ipc, in aprile oltre 900.000 di gazawi (il 44% della popolazione a Gaza) erano in una situazione di insicurezza alimentare acuta, prossima alla soglia di fame, mentre quasi 250.000 persone (il 12%) si trovavano in una situazione di “catastrofe”, ovvero appena al di sotto di tale soglia. Durante la tregua di sei settimane tra gennaio e marzo, come del resto nei sedici mesi precedenti a partire dall’ottobre 2023, l’assistenza umanitaria era fornita da agenzie dell’Onu (Unicef, Programma alimentare mondiale) e ong internazionali (ad esempio, Anera, World Kitchen Corps, Norwegian Refugee Council). A Gaza, come nelle altre situazioni di crisi umanitarie in cui operano, tutte le agenzie adottavano regole consolidate da anni. Per cominciare i punti di distribuzione erano situati in luoghi facilmente accessibili ai destinatari dell’assistenza. Nella Striscia, il numero dei punti di distribuzione (circa 400) e la frequenza delle distribuzioni erano proporzionati al numero di beneficiari da assistere onde evitare assembramenti troppo grandi e difficili da gestire, e non costringere i palestinesi a camminare lungo grandi distanze dai loro rifugi di fortuna. Tutti i destinatari di aiuti umanitari venivano identificati e registrati per correlare le forme e la qualità dell’assistenza al grado di difficoltà della popolazione dando priorità alle persone più vulnerabili incluse gli anziani, i malati, i disabili, le donne incinte o che allattano e i bambini sotto ai cinque anni. israele-palestina Insieme agli effetti devastanti sulla sicurezza alimentare e nutrizionale, la conseguenza principale del blocco alimentare imposto da Israele è stato un aumento esplosivo dei prezzi degli alimenti di base nella Striscia. All’inizio dell’anno, le derrate alimentari più comuni avevano un valore stabile e accessibile. A metà luglio, a Deir al Balah, il prezzo di un sacco da un chilo di farina costava tra oltre 150 shekel (circa 38 euro), il 7.800% più di quanto costasse prima che Israele arrestasse il flusso di aiuti umanitari [1]. Un chilo di zucchero che, prima del cessate-il-fuoco di gennaio 2025 costava 3 euro, a giugno ne costava più di 60 [2]. Quindi, tra la tarda primavera e l’inizio dell’estate, dopo quasi tre mesi di blocco, il cibo nella striscia è diventato un bene scarso e costosissimo, al di fuori dalla portata della stragrande maggioranza della popolazione. E quando un semplice sacco di farina diventa una merce preziosa, aumenta il numero di persone disposte a usare mezzi violenti per impadronirsene, inclusi delinquenti comuni, bande criminali, miliziani di Hamas. Il blocco ha reso i pochi luoghi in cui il cibo è ancora disponibile (convogli umanitari, depositi) obiettivi ad alto rischio. Non a caso si sono verificati saccheggi, furti e assalti. Tutto prevedibile e, plausibilmente previsto, dal governo di Israele. Nulla di tutto ciò sarebbe successo se a Gaza il pane e le patate non fossero diventati beni di lusso. Nulla di ciò sarebbe successo se il governo di Netanyahu non avesse imposto il blocco. Per giustificare quest’ultimo, Israele aveva accusato Hamas di appropriarsi delle forniture umanitarie al fine di sostenere le proprie azioni terroristiche. Premesso che Hamas può monetizzare scorte alimentari solo se queste sono costose, a sconfessare l’ accusa israeliana è arrivato a fine luglio uno studio dell’United States Agency for International Development (UsAid), l’agenzia statunitense che si occupa di aiuti umanitari e allo sviluppo. L’analisi dell’UsAid non ha evidenziato prove di furti sistematici degli aiuti umanitari finanziati dagli Stati Uniti da parte Hamas, smentendo quindi la motivazione addotta da Israele per sospendere l’ingresso di cibo e sostenere l’intervento della Ghf. La messinscena della Gaza Humanitarian Foundation: da un sistema con centinaia di punti di distribuzione e una registrazione dei soggetti vulnerabili a 4 centri, dove, per mangiare, si rischia la vita. Le parole, inequivocabili, dei ministri del governo israeliano. Di David Calef. Il blocco alimentare e i suoi effetti sotto il controllo della Ghf, i punti di distribuzione sono passati da 400 a 4, tre dei quali nell’estremo sud della striscia
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