Una città n. 312

una città 42 lettere, rubriche, interventi maestro di sabotaggi, mentre i Gap comunisti si dedicano al “sacrosanto terrorismo” -come giustamente lo definisce Mori. Primo Levi (Sistema periodico, “Oro”) ricorda: “Eravamo estremamente insicuri dei nostri mezzi, sicuri della giustezza della nostra scelta”. Mori aggiunge: “E qui Levi parla anche per Sandro”. Vero. Primo viene arrestato già nel dicembre 1943 e deportato a inizio 1944; Sandro, dopo aver organizzato il sostegno agli scioperi operai di marzo 1944, deve fuggire a Torino. Anni dopo, Ester Valabrega, avrebbe narrato all’amico Levi del suo arresto, della fuga dalla prigione e del suo omicidio da parte di un fascista repubblichino quindicenne. “Sandro non era uomo da raccontare -nota Primo Levi- perché stava tutto nelle azioni e, finite quelle, di lui non resta nulla”. Ma, “attraverso la letteratura” -chiosa Roberta Mori- Levi trasforma l’azione dissoltasi con la vita in “parole e pensiero”. Dal canto suo Mori ha il grande merito di aver ritrovato molte parole dimenticate e nascoste di Delmastro, e di sciogliere il nesso dialettico e conflittuale tra realtà letteraria e verità storica presente nel testo di Levi. Levi, con una procedura che gli è propria, ricostruisce (in Ferro, ma anche in altri testi o in interviste successive) gli strati successivi della soggettività di Sandro, e inevitabilmente rischia anche di proiettare se stesso attraverso le scelte narrative, sul proprio personaggio letterario e sul ricordo dell’amico. D’altro canto, non è il caso di giudicare se davvero Il sistema periodico corrisponda, almeno nel caso di Delmastro, al disegno di organizzare una “tavola dei comportamenti umani” analoga a quella di Mendeleev per gli elementi: ma è certo che la “chimica dell’esistenza alla luce della ragione” progettata da Primo Levi non ignora qui che “errore e contraddizione sono dati dell’esperienza umana a pieno titolo”. Anche nel caso del ritratto morale di Delmastro in Ferro. Ogni comportamento può essere analizzato con rigore ma, spesso, il giudizio deve restare sospeso, per rispettare la complessità di ogni individuo, nonché per evitare “ogni tendenza a semplificare la storia” (I sommersi e i salvati, Opere, cit., vol. II, pp. 1026 e 1031). Mori, mi pare che tenga di conto di tali preziosi indicazioni di Primo Levi. Affronta il nesso, talvolta dialettico, talvolta conflittuale, tra realtà letteraria e verità storica, distinguendo le differenze e le connessioni “tra i livelli di realtà interni al testo letterario” e i “livelli di realtà rispetto al fuori”. In questa scelta mi par di riconoscere la lezione di Italo Calvino, (penso in particolare al testo “I livelli della realtà in letteratura”, in Una pietra sopra, Mondadori 1995, p. 374 e sgg.). Per altri, invece, le dissonanze tra le figure storiche evocate e i personaggi letterari che li rappresentano sarebbero i sintomi di un’ambiguità morale di Primo Levi, ambiguità non diversa dall’ambiguità dei tanti abitanti della sua “zona grigia”. Per tali implacabili giudici, Levi così diventa responsabile di censure e autocensure (l’episodio della fucilazione dei compagni partigiani ladri e vessatori -peraltro invece da lui stesso reso noto) e dell’invenzione di un “dossier partigiano più fantasioso che esatto nella ricostruzione di date e dati”. (Sono le imputazioni portate contro Levi da Sergio Luzzatto in due occasioni, nel 2013 e nel 2024, e che Alberto Cavaglion ha puntualmente smontato proprio su questa rivista). Il sistema periodico dimostrerebbe, secondo Luzzatto, che Primo Levi avrebbe “pagato pedaggio alla vulgata resistenziale degli anni Settanta”, ma anche tale accisa suona falsa: sin dai primi anni Sessanta, Levi invece mise in guardia proprio dal rischio di una “imbalsamazione” -la definizione è sua- della Resistenza. E, tra 1974 e 1975, accingendosi a concludere il libro, scrisse che il suo intento era quello di comprendere che “ogni tempo ha il suo fascismo”: quello di quegli anni era fatto non solo e necessariamente di “terrore e intimidazione poliziesca”, ma anche invece di “inquinamento della giustizia” e “falsificazione dell’informazione”. Ecco. Ancora oggi sono parole da meditare. In passato -quando l’agricoltura dominava l’economia, le attività industriali erano ridotte, le imprese erano per lo più a carattere familiare e artigianale- gli anziani rallentavano l’attività lavorativa gradualmente, al passo delle loro energie e della loro salute. All’inizio del secolo scorso, i tassi di attività degli uomini con più di 65 anni superavano l’80 per cento (84,7% al censimento del 1901 e 81,4% a quello del 1911): praticamente tutti, salvo gli invalidi e gli ammalati, avevano un qualche frammento di lavoro -fosse per fare cestini, dar da mangiare ai polli, o coltivare l’orto. Gli anziani, cioè, creavano valore, anche minimo o poco più che simbolico, ed erano parti vive della società. Sappiamo quali cambiamenti profondi abbia generato lo sviluppo, che ci ha permesso -tra l’altro- di campare il doppio di anni di un secolo fa. Oggi, solo una piccola frazione della popolazione, in Italia e nel mondo sviluppato, esercita una qualche forma di attività in una fase della vita che è assai più estesa di ieri. Fino a che punto è sostenibile una situazione del genere a fronte del rapidissimo aumento della popolazione anziana? Più anziani al lavoro, ma sempre pochi È da molti decenni che il fenomeno dell’invecchiamento demografico -in parallelo con la continua diminuzione delle nascite - è diventato evidente, come ineluttabile sarà il suo progredire nei prossimi decenni. I dati sono ben noti: in Italia, nel 2000 circa il 20% della popolazione aveva più di 65 anni, una proporzione salita al 25% nel 2025, che nel 2050 sfiorerà il 35%, restando successivamente attorno a questa quota. Gli altri paesi europei stanno percorrendo un cammino analogo, anche se l’Italia li sopravanza quasi tutti per intensità dei fenomeni che ne determinano il corso (la fecondità tra le più basse del continente, la longevità tra le più lunghe). Potrà la società italiana mantenere la coesione e i livelli di vita raggiunti se -con regole di funzionamento invariate- si troverà con oltre un terzo della popolazione fuori della vita attiva? Qualcosa, tuttavia, sta muovendosi. In un recente contributo su Neodemos si legge, con riferimento all’Italia: “Le riforme pensionistiche introdotte dagli anni Novanta hanno sospinto la partecipazione al mercato del lavoro nelle fasce di età più avanzate. Questa tendenza si è riflessa in un aumento dell’età media effettiva di pensionamento per vecchiaia da 62,1 anni nel 2012 a 64,6 nel 2023. Tra il 2004 e il 2024, il tasso di partecipazione tra i 55 e i 64 anni è aumentato dal 31,7 al 61,3 per cento, pur rimanendo di quasi otto punti percentuali inferiore alla media dell’area dell’euro. Quello nella fascia di età tra 65 e 74 anni è cresciuto dal 5,0 al 10,7 per cento, ma è ancora inferiore a quello di paesi come la Germania (15,9 per cento). Il prolungamento della vita lavorativa non discende solo dalle regole previdenziali, ma anche dal miglioramento delle condizioni Anziani: ritorno al lavoro? di Massimo Livi Bacci, neodemos.info

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