una città 44 lettere, rubriche, interventi colonne e arcate, di proprietà dei nuovi arricchiti. Nelle zone più lontane l’agricoltura ancora tradizionale, pur fondata sulla natura rigogliosa, coesiste con espressioni di povertà, come bimbe di soli 4-5 anni che danzano ancheggiando per elemosinare dai turisti e bambini di 6-7 anni che portano a sera tardi, legati sul dorso, bebè di pochi mesi, mentre la madre cerca di vendere cianfrusaglie turistiche. Di giorno greggi di donne e ragazze in costumi tradizionali si affollano attorno ai turisti per vendere oggetti artigianali, scendendo lungo le terrazze del riso, per poi ritornare per sette ripidi chilometri, loro a piedi, noi in automezzi, fin su, e poi da capo con un altro gruppo. Nelle città centinaia di ragazze, relativamente fortunate, fanno massaggi orientali per pochi soldi in innumerevoli locali concorrenti, mentre altre purtroppo lavorano in loschi pub e nella prostituzione palese. Gli indumenti sportivi di marca, cuciti in Vietnam per l’esportazione ma spacciati anche per pochi dollari su tutti i mercati e nei negozi per turisti, rivelano così l'industria tessile fiorente grazie allo sfruttamento di donne, fanciulle e bambini. Persino l’ecologia non sembra essere difesa dal sistema, malgrado i dati naturali che sembrano molto favorevoli. Vi dò un solo esempio: Saigon è invasa continuamente da milioni di motorette, con un inquinamento terribile che costringe tutti a portare maschere sul naso e la bocca. Tra le infinite motorette ne ho vista solo una elettrica, mentre da noi le bici elettriche hanno in pochi anni conquistato il mercato, riducendo così lo smog, assieme agli autobus pubblici elettrici sempre più numerosi: mentre pare che molte delle bici elettriche siano montate lì, ma solo per l’esportazione. L’impressione è che il partito unico di governo (socialista? comunista?) usi le tasse e gli introiti dalle fiorenti imprese capitaliste neo-coloniali solo per mantenere il proprio apparato monopolistico, l’esercito e la burocrazia, corrotta, d’origine coloniale, che garantisce bene o male il funzionamento del paese. Anni fa, in un viaggio simile in Cina, mi era sembrato che lì gli introiti del boom economico, dopo l'apertura al mercato di libera iniziativa, mantenessero sì il potere centrale del partito, le forze dell'ordine totalitario e l'enorme esercito neo-imperialista, ma per lo meno in parte fossero investiti nel rapidissimo sviluppo delle infrastutture che permettono un futuro migliore e maggiore mobilità sociale anche a certe masse e classi meno favorite: trasporti, treni, strade, aeroporti; educazione e università pur sempre sulla base di quella meritocrazia ereditata dalla tradizione imperiale; e infine e soprattutto edilizia, con quartieri e città nuovissime con piccoli appartamenti in elevati edifici che spuntano come funghi e sono immediatamente abitati dalle nuove classi medie emegenti. Similmente, a Cuba si vede che per lo meno i sistemi sanitario ed educativo perseguono ideali egalitari malgrado le gravi difficoltà economiche prodotte dal blocco americano, ancora parzialmente effettivo, dall’apparato totalitario governativo e dall’isolamento dopo la fine dell'impero sovietico. Insomma, quello che mi rattrista è che adesso, con l’economia nuovamente sottoposta al mercato globale neocoloniale, nulla pare sia rimasto in Vietnam dell’eroica, sanguinosa e gloriosa lotta anticoloniale, eccetto l’indipendenza formale, gli slogan del partito e il ricordo dell’umiltà e modestia quasi ascetica di Ho Chi Minh. E così pure nulla è rimasto degli ideali di giustizia sociale e di eguaglianza che avrebbero dovuto essere alla base del socialismo più o meno marxista. Nello stesso modo non si ritrova nulla degli ideali delle rivoluzioni francese e americana tra i resti dell'epoca coloniale ancora presenti in Vietnam: infatti i francesi, per esempio, riuscirono sì a cambiare l'alfabeto locale di origine cinese in quello latino, ma le baguette buone in Vietnam non si trovano proprio, e neppure l'Egalité di buona memoria. Le università americane urlano per la libertà di pensiero: giustissimo, ma pochi fanno notare che sono università private (Harvard, Columbia, Princeton, Yale, Mit, Caltech), mentre quelle statali o pubbliche stanno zitte. Un’altra questione riguarda la diversità su cui si basa il modello delle pari opportunità e delle quote: per appartenere a uno dei gruppi che viene misurato (per genere, per scelta sessuale, per etnia, ecc.) si deve formare un gruppo. Ovvero, per dire che gli asiaticiamericani in media guadagnano più degli afro-americani bisogna aver definito i gruppi e chi vi appartiene, cosa problematica poiché, per esempio, spesso, se non sempre, gli afro-americani hanno molto sangue bianco e io non assumerei la definizione razzista che un goccio di sangue nero ti rende afro-americano. Se i gruppi danno origine a diritti e non semplicemente a identità differenti a mio parere si creano guai: a questo punto la persona è diventata il membro di un gruppo e non più un cittadino/a. Si presuppone che gli appartenenti a tutti i gruppi otterrebbero lo stesso risultato nello studio, nel lavoro e nel reddito se non ci fosse oppressione, e quindi si inverte l’equazione partendo dal risultato e sostenendo che debbano essere compensati per lo svantaggio storico. Penso che le azioni positive e le pari opportunità (che si basano su quell’assunto) possano servire per un periodo limitato a rompere delle barriere, ma che successivamente creano problemi più di quanto non ne risolvano. Prendiamo il caso delle università private negli Usa: Harvard (circa 100.000 dollari all’anno di tasse e college, e poche borse se non nei post laurea dove ve ne sono molte) ammette studenti di gruppi “svantaggiati” con punteggi più bassi. Ma non è detto che quella determinata persona sia più svantaggiata rispetto a, che so io, un bianco povero degli Appalachi. Se è per quello, Oxford e Cambridge, essendo il centro di un impero, da sempre prendono persone privilegiate dei paesi in via sviluppo, e così facevano Les Ecoles francesi o l’Ena. Salvo qualche eccezione, gli studenti che entrano nelle grandi università private per la prima laurea sono benestanti o ricchi. Harvard prevedeva anche sessioni di laurea aggiuntive segregate per etnia (razza?), anche se volontarie -le chiamano “per affinità”, ma ricordano molto la segregazione razziale- che sono state abolite alla fine di aprile. Ovviamente non erano permesse quelle per bianchi (sarebbe stato razzista) ma per afro-americani, asiatici, Lgbtq+, persone a basso reddito e prima generazione sì. Se ci vediamo solo con quelli/e affini è negativo, e non sorprende che ci sia una polarizzazione, soprattutto in un’università, dove si spera che lo scambio di idee sia al massimo. Ciò detto, Trump vuole imporre la sua ideologia in cambio dei finanziamenti. Considerando che Harvard ha un fondo di sessanta miliardi di dollari, forse per sentirsi libera potrebbe anche arrangiarsi e non chiedere nulla allo stato. Pare invece che si voglia essere liberi e nutriti. La politica di Trump è tremenda ma per ora ha successo perché si basa su falle molto grosse del passato. Più grave di quello all’università, che tocca la classe media e i convegnisti, mi pare che l’attacco a Nih, Fda e Cdc (sanità), alLibertà e diritti di Vicky Franzinetti
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