una città 7 L’intervistata è una volontaria di Operazione Colomba; ha chiesto che il suo nome non venga riportato per poter tornare nei territori palestinesi. Sei da poco tornata da Masafer Yatta, puoi raccontare la situazione che hai trovato? Era la quarta volta che andavo in Palestina, nell’ambito del progetto Operazione Colomba che fa un lavoro che viene definito di “protection”, cioè accompagnamento delle comunità locali nelle loro attività quotidiane. Quella di cui parlo è una comunità che, di fronte a uno degli eserciti più grandi e potenti al mondo, ha scelto come strategia di resistenza la nonviolenza. Da ventisei anni, da quando hanno vinto la causa contro l’espulsione di dodici comunità di Masafer Yatta, nell’area delle colline a sud di Hebron, è stato costituito questo comitato di resistenza popolare che unifica vari villaggi e si coordina all’interno della Palestina con altre realtà analoghe in quello che è il Popular Struggle Coordination Committee, Pscc. Le attività che noi internazionali svolgiamo sono appunto quelle di accompagnamento nella pastorizia, nelle attività di agricoltura, negli spostamenti degli attivisti locali quando diventano target di rappresaglie. Dormiamo nelle case di queste famiglie nei villaggi dove c’è più bisogno di protezione. Interveniamo nel momento in cui si sta agendo effettivamente una violenza sia da parte dei coloni che da parte dell’esercito, principalmente realizzando delle videoriprese e quindi documentando. L’obiettivo è quello di provare ad abbassare un po’ la tensione e al contempo raccogliere delle prove di quello che sta avvenendo: violazioni dei diritti umani, fondamentalmente. Quando sono arrivata era un momento in cui la comunità aveva ricominciato a reagire perché dopo il 7 ottobre erano stati praticamente bloccati in casa; non solo non si potevano muovere, ma subivano continui attacchi fin nel cortile di casa. C’era quindi stato un momento di congelamento di qualsiasi attività. Ecco, con l’arrivo della primavera, avevano ripreso le occupazioni quotidiane anche cercando di recuperare le terre che nel frattempo avevano perso. Quindi il mio arrivo è corrisposto a un relativo entusiasmo da parte mia perché vedevo comunque una reazione, mentre l’anno precedente c’era più un clima di paura. Ovviamente parliamo di piccoli obiettivi perché si faceva veramente un metro al giorno, però il sentimento era: “Piano piano quella terra me la riprendo, non vado via come nella Nakba”. La prima emergenza a cui ho partecipato è stata l’invasione di un terreno da parte di un colono con il suo gregge; quando siamo arrivati lui non c’era più, ma aveva devastato il terreno e spezzato i rami degli ulivi; abbiamo trovato la famiglia palestinese già intenta a risistemare e ad allestire una rete. Si percepiva il riemergere di una voglia di riscatto. Quel giorno ho pensato che avesse senso essere lì. Immediatamente poi la comunità si è radunata intorno a questa famiglia, che era stata vittima di numerosi attacchi nel giro di poco tempo. Mi piacerebbe dire che la cosa poi si è conclusa positivamente, ma purtroppo non è così. Cosa possono fare i palestinesi per far valere i loro diritti? Oggi i palestinesi chiamano spesso la polizia israeliana perché l’unico soggetto garante della giustizia paradossalmente è un organo israeliano. D’altra parte non hanno alternative. L’esercito ha potere sui civili palestinesi, ma non sui civili israeliani. La polizia invece ha potere anche sui coloni. Quindi i palestinesi chiamano la polizia e i coloni chiamano l’esercito. Fondamentalmente la scena è sempre quella. In molti casi poi finisce che la polizia dice loro di non chiamarli più e nel frattempo arriva l’esercito, che arresta i palestinesi che hanno subìto gli attacchi! Mentre ero lì, il padre della famiglia sotto attacco è stato gambizzato da un colono. Quell’area è molto esposta, essendo vicina a una colonia, e la famiglia è battagliera, per cui è costantemente vittima di attacchi. Quel giorno ci ha chiamato. È accaduto tutto molto velocemente. C’erano due coloni, di cui uno armato; il colono non armato ha iniziato a malmenare suo figlio. Nel frattempo l’intera famiglia era andata nel campo e aveva iniziato a riprendere. A quel punto il padre è corso in soccorso del figlio e il colono armato gli ha sparato a una gamba. Sono arrivati polizia, ambulanza, esercito… Il padre è stato portato in un ospedale israeliano (l’ambulanza era stata chiamata dagli attivisti israeliani che sostengono la lotta della comunità). Comunque è stato arrestato lui! Aveva i piantoni nella stanza e le manette al letto. Dopodiché anche il figlio è stato arrestato e messo in un carcere minorile. Sono poi stati rilasciati entrambi sotto cauzione. Il padre inizialmente è rimasto in ospedale perché purtroppo ha subìto l’amputazione della gamba, suo figlio invece è tornato a casa dopo qualche giorno. La comunità si è subito stretta attorno a questa famiglia: si facevano le veglie notturne, si presidiavano la terra e la casa, perché erano rimaste solo donne e bambini, quindi si temeva che i coloni potessero approfittarne. Quando il ragazzo è tornato, c’era tutta la famiglia allargata, con anche membri dei villaggi vicini, oltre agli internazionali e agli attivisti israeliani. Devo dire che, pur conoscendo il ragazzo, lì per lì non l’avevo riconosciuto, aveva gli occhi spenti, sembrava proprio un’altra persona, è stato impressionante. Nel periodo rimanente abbiamo continuato a “coprire” la casa: la maggior parte delle notti le trascorrevamo lì, perché i coloni continuavano a tornare. Sono due casette e il terreno è appena sopra. Poi ci sono stati altri “accompagnamenti”: c’era un’altra famiglia impegnata a riprendersi la sua terra... Dopo il 7 ottobre sono nati molti di questi cosiddetti outpost: gli avamposti sono spuntati come funghi e circondano i villaggi palestinesi. I coloni appena arrivano piantano una bandiera di Israele e poi pian piano compare una baracca, un prefabbricato, si portano gli animali e rapidamente si allargano. Sul terreno di questa famiglia avevano piantato tre bandiere enormi, a dire: “Questo posto non è più vostro”. Questa famiglia non ha paura dei coloni, però ha paura dei soldati, degli arreUn’esperienza di volontariato in Palestina, nell’area di Masafer Yatta, accanto a una comunità che, giorno dopo giorno, davanti a furti, aggressioni, uccisioni, porta avanti una forma di resistenza nonviolenta; lo sconforto, di fronte a tanta ingiustizia, che fa dubitare del senso del proprio impegno, ma anche l’imprevista gioia di stare in mezzo a un gruppo di donne e uomini che, nonostante tutto, alla fine di una giornata di angherie trova la forza di ridere. il colono armato gli ha sparato a una gamba, è stato portato in ospedale... e poi è stato arrestato il palestinese! SIAMO ANCORA QUI israele-palestina
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